“Gli agricoltori di Cerignola chiedono un censimento e un monitoraggio di tutte le cave finora oggetto di sversamento, un periodico rilevamento di tutte le zone del territorio oggetto di possibile sversamento di rifiuti tossici, e il monitoraggio e analisi delle acque della diga e dei pozzi che da queste attingono. Gli agricoltori pretendono tutto questo”. Oltre alla “condivisione dei risultati coi cittadini e le associazioni locali”. Sente di parlare a nome dell’intera categoria, Maria Teresa Riccio-Alicino, madre e moglie di produttori agricoli. E a nome di un intero comparto che mette in fila le richieste urlate dal palco della mobilitazione che ieri sera a Cerignola ha acceso oltre 500 fiaccole, per dire basta agli sversamenti di rifiuti campani nelle campagne. “Io non soffio sul fuoco dell’allarmismo, voglio conoscere la verità. Questo rimbalzo di notizie potrebbe dare il colpo mortale alla nostra economia già in coma. I nostri prodotti non devono essere guardati con sospetto. Viviamo già immense difficoltà”, continua la donna. Già in prima fila a dicembre scorso, quando la protesta dei Forconi, che infiammava le piazze di Italia, assunse a Cerignola livelli preoccupanti, non semplicemente per la massiccia adesione (oltre 3mila manifestanti parteciparono al corteo cittadino).
Ad accrescere i livelli d’allerta per il sistema criminoso degli sversamenti illeciti di rifiuti campani nell’agro cerignolano, venuto a galla con l’operazione “Black Land”, condotta dal Comando provinciale dei Carabinieri, della Dia e del Noe di Bari, le notizie, poi smentite, sulla presenza di materiali tossici radioattivi rilevati nel corso dei carotaggi effettuati nei giorni scorsi nella cava di località Ragucci, nei pressi della diga Cappacciotti. In quella stessa giornata l’assessore regionale all’Ambiente, Lorenzo Nicastro, in una nota stampa, poneva l’accento sul rischio ambientale per la terra di Capitanata, avanzando la richiesta di un incontro con il ministro per estendere il “decreto Terra dei Fuochi”, varato dal Governo lo scorso 3 dicembre, con lo scopo di fornire gli strumenti necessarianche alla Capitanata, con la possibilità di utilizzare le risorse economiche poste a sequestro penale “per le esigenze di caratterizzazione e per rendere innocue le situazioni a rischio”, evitando le lungaggini della confisca e di gravare sugli enti locali.
Prematuro, parlare di possibili danni, dal momento che non è neanche noto l’esito dei campionamenti effettuati. È il giudizio raccolto negli ambienti istituzionalmente deputati a rappresentare gli interessi degli attori del comparto produttivo su cui poggia l’economia di Capitanata. Qualora, lo stesso, rilevasse l’effettiva presenza di rifiuti tossici, allora si dovranno fare i conti con un rischio accertato, basandosi su “dati di fatto” e “fonti certe e autorevoli”.
Al momento non c’è niente di tutto questo e il rischio possibile è cedere agli “allarmismi generalizzati”. Una reazione che si giustifica, forse, ragionando per analogia con quanto già accaduto all’agroalimentare della Campania, che ha risentito degli effetti dei crimini commessi dagli avvelenatori della “Terra dei Fuochi”, come se l’intero territorio fosse contaminato (secondo i rilievi delle agenzie e istituti ambientali Arpac e Ispra, il dato si avvicina all’1% dei suoli agricoli). Un timore smentito dai dati scientifici risultati dall’indagine condotta dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli (hanno dimostrato che “le zone interessate dallo sversamento dei rifiuti tossici, soffrono degli stessi indici di inquinamento di tutte le pianure fortemente urbanizzate d’Italia e d’Europa”), oltre che dai dissequestri disposti dalla Magistratura per le colture prodotte in molti di quei terreni. Travolti dall’onda lunga della “vicenda veleni” i prodotti tipici campani hanno registrato cali di vendite (-40% per la mozzarella di bufala dop, secondo i dati diffusi sul finire del 2013) e danni di immagine per la salubrità dei prodotti coltivati nella terra campana.