Ci sono cause che si perdono. Dove non si tratta di andare in Questura a verificare lo stato di una pratica o di scrivere un ricorso. Ci sono casi complicati, dove profili umani e giuridici s’intrecciano, dove le difficoltà sono oggettive e la prospettiva per chi viene a chiedere aiuto è scoraggiante o troppo rischiosa.
Hassan parla una lingua ibrida, un misto di italiano, francese, forse dialetto burkinabé. Ci si capisce a fatica. Ci racconta la sua storia con poche parole sempre le stesse, a ripetizione, senza quasi dare il tempo di fare delle domande. “No permesso”, “caporale”, “minacciato”, “niente contratto”. Mostra delle carte, solo grazie a queste riusiamo a ricostruire la sua storia. Hassan ha lavorato per tre anni nei campi di carciofi nei dintorni di un piccolo paesino della nostra Daunia. Aveva un permesso per protezione umanitaria, rinnovato e scaduto mesi prima. Il suo datore di lavoro non lo ha mai regolarizzato e si rifiuta di fargli un contratto per avere un nuovo permesso di soggiorno, per lavoro. Fa anche raggiungere il ragazzo nella sua casa da un suo “amico”, così lo chiama Hassan, per minacciarlo di morte, metterlo a tacere, fargli paura. La rete è quella che conosciamo bene. È quella del caporalato.
Hassan fa dei nomi. Dubitare della loro veridicità è normale ed istintivo. Certamente sono di fantasia. Il suo capo “bianco”, un “Antonio” qualunque, come migliaia nella nostra Provincia. Non basta per pensare di poter ricorrere all’art. 18 del Testo Unico sull’immigrazione che prevede il rilascio di un permesso umanitario per grave sfruttamento lavorativo. Né ci sono elementi per denunciare ex art. 603-bis del codice penale che configura il reato di “caporalato”. Stessa difficoltà nella ricostruzione della vicenda delle minacce. Era solo con i suoi aggressori verbali. Non ci sono i presupposti per nessuna iniziativa legale. La difficoltà di dimostrare lo sfruttamento, il grave sfruttamento per di più, è congenita alle situazioni in cui esso si sviluppa. Denunciare poi, significa esporsi e rischiare, impegnarsi e cooperare in un procedimento. Non tutti sono disposti a farlo. Da un lato la paura del caporale e delle sue ritorsioni, dall’altro dello Stato che con la procedura di espulsione minaccia di mandarti via. Hassan è in quel limbo di ingiustizia dove molti restano sospesi a vita.
Non ci arrendiamo. Chiediamo ad Hassan di fornirci dei nominativi di persone che hanno lavorato con lui. Consci di rischiare di fare un buco nell’acqua, tentiamo comunque di capire se ci siano dei testimoni che possano aiutarci a provare la sussistenza almeno dello sfruttamento. Con la testa è un “si”. Nello sguardo tutta la preoccupazione ed il disagio per una richiesta molto “scomoda”.
Quel pomeriggio è l’ultima volta che parliamo con Hassan. Non si presenta all’appuntamento successivo e non risponde al telefono. Ha rinunciato a farsi giustizia. Ci sono casi in cui la paura e la rassegnazione ad una condizione sono più forti di tutte le norme “illuminate”, bandiere al vento di un diritto alla difesa talvolta solo esibito. Casi in cui non basta lo slancio e la pervicacia dei volontari.
Ci sono cause che si perdono, in partenza. Quella di Hassan è una di queste.