Dai capi d’abbigliamento, alle protezioni da lavoro. Nel mezzo oltre quarant’anni di storia imprenditoriale per la «DN» Antinfortunistica, la fabbrica dell’imprenditore manfredoniano Michele De Nittis per la verità ancora molto più conosciuto a Manfredonia e non solo per essere il titolare dell’accorsato negozio di abbigliamento in via Tribuna, piuttosto che per aver dedicato gran parte degli ultimi vent’anni della sua attività imprenditoriale sugli abiti da lavoro e sulla protezione della manodopera contro quella che è diventata la grande piaga del secolo, gli infortuni sui luoghi di lavoro che funestano quasi ogni giorno i notiziari dei TG. Il grande capannone nell’area industriale sulla statale 89 rappresenta una svolta nella cultura antinfortunistica nelle regioni del Sud e, più in generale, anche nel nostro paese dal momento che l’imprenditore sipontino detiene in portafoglio accordi di fornitura con clienti di livello internazionale, un nome per tutti il gruppo automobilistico Stellantis di cui è proprietario con una quota del 9% lo stato francese.
Ma è nel negozio di via Tribuna che effettivamente tutto cominciò. Siamo negli anni Settanta e lo stabilimento petrolchimico Enichem affacciato sul Golfo di Manfredonia è la fabbrica che dà lavoro a oltre 3mila persone, tiene in vita l’indotto industriale, rappresenta la svolta economica di un territorio che vedrà per sempre modificato il suo skyline produttivo e sociale lasciando danni che ancor oggi si fa fatica a cancellare (è il caso delle bonifiche non ancora eseguite nell’area di Macchia dov’era ubicata la fabbrica per la produzione del caprolattame, territorio di Monte Sant’Angelo). La città a quel tempo è ricca, girano molti soldi grazie alla grande industria, i dirigenti del petrolchimico sono soliti recarsi nel negozio di De Nittis per acquistare vestiti. E proprio in seguito a queste frequentazioni nasce in Michele De Nittis l’idea di lanciarsi in un altro business che non fosse propriamente quello dei vestiti da cerimonia, segmento all’epoca totalmente sconosciuto. «Mi suggerivano questi dirigenti d’azienda che venivano a trovarmi in negozio, che avrei potuto valutare l’ipotesi di diversificare le nostre attività, sondare il campo all’epoca totalmente sconosciuto degli abiti da lavoro. All’Enichem gli operai erano dotati di protezioni da indossare anche se all’epoca non c’era tutta questa sensibilità sul fronte della prevenzione. Fatto sta che non lasciai cadere quel suggerimento», risponde a l’Immediato Michele De Nittis in questa intervista esclusiva.
Oggi il ventaglio dei DPI da realizzare è abbastanza ampio, peraltro per restare in tema voi siete rimasti agganciati all’idea della grande fabbrica.
Ci occupiamo di tutti i tipi di Dispositivi di sicurezza, dalle scarpe, ai guanti, a tutta la protezione del corpo umano tralasciando i campi di intervento poichè quando si parla di sicurezza non si può ignorare alcun aspetto. La nostra impresa negli ultimi vent’anni, da quando abbiamo allargato la nostra base operativa, ha conosciuto un’espansione commerciale a livello internazionale perchè ci siamo messi in testa sin dalle prime battute che questo genere di attività avrebbe avuto un futuro solo se fossimo andati oltre il nostro territorio. Ormai forniamo questi nostri dispositivi a decine di aziende in Italia e in Europa. Siamo fornitori importanti dei gruppi Stellantis (l’automotive di casa Fca e Peugeout: ndr), CNH Industrial che racchiude i marchi Iveco, Iveco bus e Fpt. Nella zona industriale di Bari quasi tutte le aziende sono nostri clienti: parliamo di Bosh, Bridgestone, Magneti Marelli. Abbiamo clienti anche in Spagna ed abbiamo lavorato per diversi anni in Australia. Non siamo molto conosciuti in Italia perchè non amiamo il clamore, non vogliamo metterci in mostra. Ma siamo di complemento alle aziende che si riforniscono dei nostri supporti di protezione. E poi abbiamo una buona rete commerciale sulle rivendite, ovvero tutti quei negozi dalle utensilerie, alle farmacie agricole che vendono pure al dettaglio: noi le riforniamo dei nostri prodotti».
“Abbiamo clienti anche in Spagna ed abbiamo lavorato per diversi anni in Australia”
Fatturato, dipendenti e indotto: i numeri suggeriscono l’idea di un’azienda di medio-piccole dimensioni nel tessuto nazionale. A livello locale sono numeri più impegnativi.
«Abbiamo 22 dipendenti diretti, un fatturato sotto i 20 milioni di euro e un indotto abbastanza esteso perlopiù all’estero. Specie per quanto riguarda gli indumenti, andiamo a realizzare i nostri dispositivi in paesi terzi: in Turchia abbiamo un sito in cui lavorano 90 persone solo per noi. Anche in Egitto disponiamo di canali di produzione importanti, aziende che si sviluppano soprattutto dove la manodopera risulta più conveniente. È il mercato che ci porta verso queste direzioni. Il mondo lo vediamo come un’opportunità globalizzante, se nei paesi extraeuropei c’è lavoro a sufficienza difficilmente avremmo i viaggi della speranza ai quali assistiamo oggi. Ovviamente ben altra cosa sono i viaggi di quelle persone che partono per questioni umanitarie».
Vi occupate di un settore molto delicato e costantemente sotto la luce dei riflettori a causa dei troppi incidenti. Fate antinfortunistica da oltre vent’anni, com’è cambiato questo settore sul piano della prevenzione?
«C’è molta più attenzione da parte delle aziende, ci sono gli Rspp (responsabili del servizio di protezione e di prevenzione dei rischi: ndr) che seguono costantemente le attività degli operai. Ma esistono ancora sacche di scarsa sensibilità e attenzione nei confronti della tutela dei lavoratori, questo accade soprattutto nelle piccole aziende e in particolar modo nell’edilizia. Nei cantieri si notano spesso operai senza copertura e senza scarpe. Nessuno li richiama all’ordine, corrono un rischio costante».
“Nei cantieri si notano spesso operai senza copertura e senza scarpe”
La sensibilità cresciuta da parte delle aziende più grandi secondo lei dipende più dallo spauracchio di poter incappare in multe pesanti dagli ispettori, oppure da una sensibilità sul tema tutto sommato cresciuta sui luoghi di lavoro?
«Il lavoratore viene istruito, si crea una cultura. Nelle grandi aziende questo accade, noi ci siamo sviluppati alla ex Sofim (oggi FPT: ndr) che da questo punto di vista è da ritenersi un’azienda modello. Trent’anni fa entrare in quello stabilimento significava imbrattarsi di oli combustibili di cui era impregnato il pavimento della catena di montaggio, oggi quello stesso impianto a fatica può essere considerato un ambiente di lavoro per quanta pulizia e ordine ci sia all’interno, ci si potrebbe persino metter tavola. Credo che molto lavoro debba ancora essere fatto nella testa dei lavoratori. Attenzione: il mio non è uno scaricare le responsabilità sugli operai, molte volte l’operaio non ci pensa proprio a indossare scarpe da lavoro o altri indumenti perchè non è abituato a farlo. Lo vedo anche con i miei dipendenti. Qualcuno lamenta dolore ai piedi se indossa scarpe antinfortunistiche, ma se si entrasse nell’ordine di idee che quelle sono protezioni utili e inevitabili per tutelare la propria sicurezza molte cose cambierebbero. Anche l’imprenditore non si deve stancare di star dietro a queste cose, non dev’essere solo un impulso burocratico perchè lo prevede la legge. Una volta accaduto l’incidente poi non si torna indietro».
Scattano le prescrizioni, sono previste sanzioni pecuniarie pesanti e si corre il rischio di chiudere. A fronte di misure indubbiamente più rigide nei confronti dei datori, la sostanza non cambia. Perchè?
«Qualche giorno fa ho raccolto lo scoramento di un mio caro amico imprenditore, il quale si rammaricava del fatto che un suo dipendente, mandato in trasferta a svolgere un lavoro per conto della sua azienda, fosse incorso in un incidente per fortuna non grave durante le attività che stava svolgendo. Aveva del tutto dimenticato di indossare guanti, occhiali e scarpe adatte, tutto previsto dalla legge. Il lavoratore ha comunque ammesso le proprie responsabilità, l’incidente si è chiuso bonariamente e non ci sono stati strascichi per il datore presso cui stava lavorando e il suo mandatario. Ma se il lavoratore avesse denunciato che l’inosservanza delle norme non era dipesa da lui come sarebbe andata a finire? C’è distrazione, noncuranza, da una e dall’altra parte. Non fa parte ancora della nostra cultura quella di doversi comunque proteggere».
Quantomeno si denuncia di più. Qualche decennio fa se ne parlava soltanto se ci scappava il morto.
«Dopo il caso della Thyssenkrupp tutto è cambiato. Nell’incendio scoppiato nell’acciaieria di Torino (5 dicembre 2007: ndr) morirono all’interno dello stabilimento sette operai. Un altro grave rogo scoppiò sempre alla Thyssenkrupp di Terni, due anni dopo: perse la vita un operaio trentenne per le esalazioni. Incidenti molto gravi che hanno segnato una svolta nella cultura antinfortunistica del nostro paese, la magistratura condannò con pene da 6 a 7 anni il management dell’azienda (il direttore del personale, il responsabile della sicurezza e il responsabile degli investimenti proprio sull’antincendio) e l’ex amministratore delegato (anche se quest’ultimo, Harald Espenhahn, è entrato in carcere per scontare la pena di 9 anni e 8 mesi soltanto nel 2023: ndr)».
“Dopo il caso della Thyssenkrupp tutto è cambiato”
La responsabilità è sempre in capo all’azienda e al datore di lavoro anche quando questa si rivela inefficace nel far rispettare le regole nel sito produttivo.
«Sì, ma attenzione. Il lavoratore che non rispetta le regole sulla sicurezza rischia il licenziamento. Mi chiedo tuttavia quanti siano oggi i datori di lavoro disposti ad applicare con il massimo rigore le leggi in vigore, fino alle estreme conseguenze ovvero rischiando di dover licenziare collaboratori preziosi. È chiaro che subentrino altri fattori in uno stabilimento, l’antinfortunistica è efficace se tiene conto di prescrizioni rigide che non sempre si possono attuare. È così che ci scappa il morto o avviene il fatto grave. Difficile, in queste condizioni, star dietro ai compromessi».
Diciamo allora che l’antinfortunistica come bagaglio essenziale della cultura d’impresa di datori che dei lavoratori, è un concetto che lascia ancora molto a desiderare.
«Concordo, sono regole che faticosamente si riescono ad applicare nel nostro paese. Altrove però non è così. Avevo rapporti con un’azienda del mio stesso settore in Australia, azienda fondata da me, ma di cui poi mi sono disimpegnato. Fin dall’inizio delle attività e senza particolari sforzi o sollecitazioni varie, i lavoratori indossavano regolarmente gli occhiali protettivi, le scarpe e le imbracature necessarie quando c’era da svolgere determinati compiti. Questo qui non succede».
In quest’azienda nell’area D46 alle porte di Manfredonia di cosa vi occupate più direttamente?
«Qui facciamo essenzialmente stoccaggio di prodotti, abbiamo una superficie di 4mila mq. Abbiamo un altro capannone di 1200 mq. e da un po’ abbiamo preso un altro sito di 330 mq perchè abbiamo necessità di dotarci di altro spazio. Ce ne sarebbe di spazio qui intorno per ampliarsi ancora, ma siamo in un’area industriale infausta, voluta dalla politica ai tempi del Contratto d’area mai decollato. Paghiamo le imposte, ma senza beneficiare di alcun servizio. Non abbiamo né acqua corrente e nemmeno la fogna. Furono finanziate somme ingenti per il vicino albergo Nicotel che ha funzionato per appena 5 anni, sono stati distolti soldi pubblici che potevano essere utilizzati per implementare i servizi di questa area industriale».
Quale idea ricava dal flop del Contratto d’area, fu una stagione infelice solo del governo Prodi che pensava forse per un grave errore di sottovalutazione, di affidare all’insediamento di nuove piccole industrie la nuova imprenditoria locale? Oppure è mancato un controllo sul piano locale?
“Sono stati distolti soldi pubblici che potevano essere utilizzati per implementare i servizi di questa area industriale”
«Fu immaginata un’espansione industriale spropositata, la politica locale e le amministrazioni pubbliche non si resero conto che si stava tirando su qualcosa di irrealizzabile. E poi il ruolo degli imprenditori veneti: furono presentati come capitani d’impresa, tutti noialtri avevamo secondo loro l’anello al naso. Oggi quest’area funziona grazie soprattutto all’imprenditoria locale e veniamo trattati con superficialità e disinteresse da parte del comune di Manfredonia. A quel tempo furono acquistati capannoni costosissimi che servirono solo a ottenere i finanziamenti pubblici ed a tagliare la corda. È stato sbagliato tutto, il governo avrebbe dovuto prima incentivare gli investimenti e poi concedere i finanziamenti. Come fecero alcuni di noi».
Le schegge del Contratto d’area hanno però permesso alle imprese locali di darsi una svegliata e di incentivare gli investimenti. Lei per primo.
«Avevo già un’attività avviata, un importante negozio di abbigliamento a Manfredonia che ci permetteva e ci permette ancora di stare sul mercato. Volevo però allargare gli orizzonti della mia impresa. Se non ci fosse stata questa possibilità avremmo dovuto acquistare un capannone in altre zone. Nell’area Enichem non credo che l’avrei trovato, visto il tasso di inquinamento che ancora persiste in quell’area. Più probabile che l’avrei trovato dove c’è attualmente lo scheletro della vecchia fabbrica Ajinomoto».
In quale settore si vendono maggiormente i Dpi, a parte il metalmeccanico?
«Tutte le grandi aziende dell’area industriale di Bari si riforniscono da noi, al Nord abbiamo tantissimi clienti. Il nostro marchio “Safeman” nasce a Melbourne con il quale oggi commercializziamo i nostri dispositivi anche in Italia. Alla FPT di Foggia riforniamo da tempo i lavoratori di tutti i nostri equipaggiamenti, tutto il gruppo Stellantis è nel nostro portafoglio clienti. Vendiamo anche al dettaglio, serviamo nel Barese grosse aziende agricole. Ma non posso dire la stessa cosa per le aziende agricole foggiane, che ritengo inefficaci da questo punto di vista: c’è scarsa cultura imprenditoriale in queste aziende se non provvedono a dotare i propri lavoratori di dispositivi adeguati. In provincia di Foggia lavoriamo bene solo con Princes Industrie Alimentari».
“Alla FPT di Foggia riforniamo da tempo i lavoratori di tutti i nostri equipaggiamenti, tutto il gruppo Stellantis è nel nostro portafoglio clienti”
A Foggia si applica poca cultura antinfortunistica, oppure semplicemente le aziende si rivolgono ad altri marchi?
«Il mio, mi creda, non è aziendalismo e semplicemente mi limito a osservare il fenomeno senza farmi condizionare da altri fattori. Ma è quello che accade regolarmente quando ci affacciamo sul mercato: le imprese foggiane, a parte le più grandi, non sono particolarmente sensibili al tema, mettiamola così. A Bari ci sono aziende agricole di buon livello che non possono fare a meno degli equipaggiamenti per i lavoratori, in provincia di Foggia questo non accade e ci sarà un motivo. Esistono purtroppo verità inconfessabili che sarebbe il caso di mettere fuori una volta per tutte, se le aziende foggiane si rivolgono ad altri andrebbe bene lo stesso per noi. Il problema non è in questi termini».
Quanto è cresciuto il vostro fatturato grazie alla diffusione di una maggiore cultura o sensibilità nell’antinfortunistica?
«Le aziende più sono grosse, maggiore è la necessità di dotarsi di sistemi di sicurezza per propri lavoratori. Esiste tuttavia un grado di intraprendenza imprenditoriale importante da parte anche di alcune piccole realtà. Ci sono tantissime piccole aziende che tengono alla salute dei propri dipendenti e non badano a spese. Noi lavoriamo in tutta Europa, una tendenza che riscontriamo anche in altri paesi non soltanto in Italia».
Come nasce lo spirito d’impresa puntando su un segmento così estraneo alla cultura d’impresa, almeno fino a qualche decennio fa?
«L’idea nasce quasi per caso, grazie ai nostri clienti, molti dei quali dirigenti della vecchia Enichem, che venivano a rifornirsi di abiti civili nel nostro negozio di Manfredonia in via Tribuna. Cominciammo così a interessarci della materia. Grazie a questi contatti riuscimmo a prendere anche una commessa con la Fiat, ma poi arrivò da Torino l’ordine perentorio di fermarci. Fu così che allora decisi di prendere il toro per le corna, mi presentai direttamente io ai cancelli di Mirafiori, capii che avevo davanti a me una grande opportunità imprenditoriale, avremmo potuto aumentare considerevolmente il nostro giro d’affari. Ma sapevo anche che avrei dovuto farmi avanti io, nessuno a quel tempo mi avrebbe scommesso un soldo bucato sulle nostre capacità d’impresa. Riuscii ad essere convincente con un dirigente dell’epoca che volle ascoltarmi, riuscii a trasmettere la mia caparbietà e forse la mia credibilità d’impresa».
Oltretutto lei era visto come un “terrone”, altro problema da superare nella Torino anni ’70 arcaica e in cui infuriava la lotta proletaria.
«Per la verità con la Fiat di Torino non avemmo problemi di questa natura, con i veneti di Arzignano invece sì. Cosa c’entrano i veneti? Glielo dico subito: in quell’area c’era un grandissimo indotto manifatturiero, dovemmo rivolgerci a loro per realizzare i nostri primi dispositivi di sicurezza in migliaia di capi naturalmente dovendo rifornire una grande azienda come la Sofim di Foggia che contava all’epoca circa 2000 addetti. Ebbene i veneti ci guardavano dall’alto in basso e pretendevano pagamento anticipato da noi. Non si fidavano nemmeno dopo aver sondato il terreno a seguito delle prime forniture. Quando l’affare andò in porto, fu poi la direzione Fiat di Torino, qualche tempo dopo, a telefonarmi chiedendomi se fossi in grado di occuparmi delle forniture Dpi di tutti gli stabilimenti Iveco. Parliamo di una commessa enorme, servivano in prima distribuzione qualcosa come 8mila paia di guanti. Non sapevo nemmeno da dove cominciare, ma ci siamo dati da fare e soprattutto ci siamo rivolti ancora ai veneti per consegnare la commessa nei tempi stabiliti. È stata una gran bella avventura, molto faticosa ma piena di soddisfazioni. Ancor oggi, a pensarci, provo un’emozione profonda ricordando quei tempi eroici per noi e anche per l’industria automobilistica italiana della cui affermazione, sento di poter dire, la mia azienda è stata parte integrante».