Tra carte giudiziarie e testimonianze sta venendo fuori l’alto profilo criminale dei tre killer di San Marco in Lamis. Sicari affatto sprovveduti ma precisi calcolatori, professionisti di morte. Quel 9 agosto 2017 l’azione fu rapida ma non maldestra, né frettolosa. Ci misero due minuti, forse tre, per ammazzare quattro persone e scappare via indisturbati, noncuranti della presenza di potenziali testimoni a pochi metri dalla zona della strage. A confermarlo l’imprenditore agricolo Antonio Pazienza che davanti ai giudici della Corte d’Assise di Foggia, ha raccontato tutto quello che riuscì a vedere quella mattina, evidenziando la presenza di altre persone, anche meglio posizionate rispetto a lui. Tra queste un suo operaio, alle prese con la coltivazione di zucchine. L’uomo sarà ascoltato il prossimo 21 ottobre.

“Dopo aver sparato, con molta calma e senza correre, salirono sull’auto per allontanarsi in direzione Apricena”, queste le parole di Pazienza nel verbale di sommarie informazioni testimoniali raccolte nelle ore subito successive alla mattanza. “Non ricordo movimenti veloci da parte loro”, ha ribadito in Corte d’Assise davanti al giudice Antonio Civita e alla pm della DDA Luciana Silvestris. Un paio di auto sopraggiunsero in quei tragici momenti, un suv e una Fiesta rossa: gli automobilisti, notata la sparatoria, fecero inversione allontanandosi. Anche una turista francese disse di aver visto i killer: tre uomini incappucciati e armati dentro una Ford C-Max, auto trovata bruciata nei pressi della masseria dei Tarantino (clan di San Nicandro Garganico), sulla Sp28 in agro di Apricena. Proprio un soggetto ritenuto vicino ai Tarantino scomparve nel nulla successivamente alla strage, ricomparendo quattro giorni dopo, troppo tardi per essere sottoposto allo stub, l’analisi sulla presenza di tracce di polvere da sparo.
Ma sono molti altri gli elementi di spunto al vaglio di chi indaga e che saranno spulciati durante il processo. Un altro testimone, si legge nelle carte giudiziarie, “notò che mentre era intento ad arare i campi aveva visto una macchina e, poco dopo, del fumo. Riuscì a scorgere tre persone a volto scoperto (una più alta delle altre due) che correvano a piedi per i terreni in direzione della masseria di Luigi Tarantino“. I sicari si sarebbero smascherati indirizzandosi verso il podere, senza alcuna paura nel mostrarsi e nel far vedere dove andavano, incuranti dei tanti occhi presenti nel raggio di pochi metri.
I killer, fermi e risoluti nell’azione omicidiaria, eliminarono solo le persone ritenute scomode. A cominciare da Mario Luciano Romito, boss di Manfredonia scarcerato sei giorni prima.
L’uomo, con una condanna a morte sulle spalle essendo già scampato a due agguati in passato, non si sarebbe mai potuto recare così incautamente in un territorio non suo. Soltanto qualche aggancio in zona avrebbe potuto consentire gli spostamenti del defunto capomafia manfredoniano.
Oggi, grazie alla testimonianza di Pazienza, inizia a delinearsi la dinamica ma nessuno ha ancora chiesto se i killer erano incappucciati al momento della sparatoria. Come rimane da chiarire il ruolo dei Luciani e di Luigi Ferro, quest’ultimo ritenuto dagli inquirenti storico sodale di Romito ed arrestato insieme al boss nell’operazione “Ariete”. Difficile pensare che il commando armato abbia scambiato i Luciani per Ferro, i primi quasi calvi, il secondo con i capelli increspati. In quanto professionisti del mestiere, gli assassini avevano tutto il tempo per verificare con calma un eventuale scambio di persona.
Adesso i magistrati sperano che altri testimoni – così come il coraggioso Antonio Pazienza – possano spiegare ancora meglio la dinamica dell’agguato e quell’accanimento nei confronti dei due agricoltori, inseguiti e trucidati senza pietà. Per l’ex comandante provinciale dei carabinieri di Foggia, il colonnello Marco Aquilio non si era mai assistito ad un’eliminazione così cruenta di presunti testimoni scomodi.
Le rivelazioni del pentito
Tutto ruota attorno alla figura di Romito, forse ucciso perché solo con la morte poteva pagare il suo ruolo di confidente dei carabinieri: soffiate che agli inizi degli anni 2000 costarono il carcere ai fratelli Franco, Armando e Matteo Li Bergolis, un tempo alleati di Mario Luciano e poi acerrimi nemici.
Qualcuno avrebbe voltato le spalle al boss per sedersi al tavolo con i capiclan emergenti del Gargano? Romito sarebbe stato ucciso per favorire i rivali Li Bergolis-Miucci o per facilitare la scalata di alcuni suoi sottoposti? Non è un caso se, negli ultimi mesi, si sia iniziato a parlare di un nuovo gruppo criminale, denominato da magistrati, polizia e carabinieri “Lombardi-Ricucci-La Torre”.
Una serie di intrecci e interrogativi ai quali starebbe dando risposte importanti il pentito Carlo Magno, 62 anni, anche lui di Manfredonia, reo confesso dell’omicidio di Saverio “Faccia d’angelo” Tucci, assassinato ad Amsterdam il 10 ottobre 2017. Proprio Tucci, stando alle parole di Magno, sarebbe uno dei tre killer che il 9 agosto entrarono in azione a San Marco.
Gli inquirenti non sottovalutano alcuna pista e tengono le antenne dritte quando a parlare è Magno, ritenuto dai magistrati antimafia “un collaboratore di giustizia affidabile e credibile”.
Sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori, un episodio avvenuto a casa di Romito il giorno prima della strage. “Persone di San Marco andarono via dall’abitazione del boss non tanto contente”, l’oscuro dettaglio fornito da Magno al pm della DDA di Bari, Giuseppe Gatti.
Alla luce di queste rivelazioni, chi indaga non esclude il coinvolgimento di sammarchesi nella strage, anche perché la geografia criminale di quel territorio sarebbe ancora in divenire e l’eliminazione di Romito avrebbe favorito nuovi assetti.