Lasciate per cinque minuti fuori dalla porta di casa i vostri colori politici, sbiaditi che siano, e tornate indietro con la mente a trenta o quaranta anni fa. Tra gli anni settanta e gli anni ottanta la politica era ancora una cosa abbastanza seria. C’erano i primi sentori di marcio, ma c’erano anche leader veri. Quelli per cui provi riverenza e un disarmante senso d’inferiorità. Quelli per cui valeva la pena mettersi l’abito buono e andarli a votare la domenica dopo la messa. Enrico Berlinguer a messa non ci andava di certo, ma era uno di loro. Era comunista. Molto comunista. Ha diretto il partito per vent’anni, restituendo allo scheletro che gli era stato consegnato, un corpo e un’anima. Ha restituito a chi credeva in quelle idee la voglia di esserci e di rimanere coccolati da una bandiera. Ha restituito in chi vedeva in lui un nemico pubblico la forza di tornare a lottare lealmente. Non sto a raccontarvi la storia di Enrico Berlinguer. Non mi sento all’altezza di farlo. Vi dico solo che è l’ultimo politico integro che il nostro paese abbia avuto. Dopo di lui il vuoto. La nebbia. Enrico Berlinguer è morto a Padova 30 anni fa. Il 7 giugno del 1984, mentre parlava dal palco montato in piazza dei Frutti, (lo stesso, per capirci, dove in questi giorni hanno parlato Vendola, D’Alema e la bella Boschi) ha avuto un ictus. Mentre parlava ai ‘compagni’. Mentre li esortava a “lavorare tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda”.
Quel giorno la morte ha rubato la falce dalla bandiera a cui Berlinguer ha dedicato la vita. Ha violato i patti di unione che c’erano con il martello degli operai e ha colpito solitaria. Berlinguer nonostante il malore finì il suo discorso, mentre l’orgia rossa gli chiedeva di smettere. Dopo il comizio tornò nella sua camera d’albergo, si addormentò ed entrò in coma. Morì quattro giorni dopo in ospedale. Nei giorni e negli anni la sua morte si è tinta di giallo e stavolta non era il giallo della falce e martello, ma quello di un omicidio. Le tesi sui ritardi dei soccorsi, o del bicchiere d’acqua avvelenato, delle immagini del comizio vendute la notte stessa dalla Rai al Pci.
A Walter Veltroni che poi ci ha fatto un film su “quando c’era Berlinguer”. Tutto avvenne in fretta e nel furgone dell’operatore che le aveva registrate. Come un pacchetto di fumo. La verità non la sapremo mai. Non illudetevi. Non c’è scatola nera che racconti la storia vera di quello che accadde quel 7 giugno ’84. Non c’è scatola nera che racconti il potere del potere. Resta il fatto che Berlinguer sia morto davanti ai suoi figli adottati e dopo una storia politica irripetibile. Una biografia fatta di idee, di coraggio, di confronto, di lucidità, di intelligenza, maturità, spirito, ambizione e sogno.
A Padova, proprio nella piazza dove è ‘morto’, c’è una targa in memoria dell’onorevole Enrico Berlinguer. E’ sospesa a quasi cinque metri d’altezza, dove non la vede nessuno. Dove lo sguardo non cadrà mai. E’ piccola e annerita. E’ nel posto in cui a noi italiani piace mettere le cose scomode. Cinque metri più in alto di tutti è sempre stato, ma oggi meriterebbe di tornare tra la gente. All’altezza degli uomini. All’altezza degli occhi degli uomini. A venti giorni dal trentennale della sua morte “dolce Enrico” è ancora fastidioso, seccante, scomodo. Ora riaprite la porta di casa e fate rientrare i vostri colori, voi ricchi che ne avete ancora.
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