“Cacciaguerra”. Il nome è ripetuto spesso nelle agenzie di stampa. Qui, secondo gli inquirenti, sono state sepolte 500mila tonnellate di rifiuti di ogni tipo. Eppure, negli ultimi 60 anni, questo è stato il posto dei tesori archeologici di Ordona. La cui vicenda si lega proprio a quel nome, alla famiglia che dà il nome alla località invasa dalla monnezza campana. Al punto da far svanire la “Grande Bellezza” del Tavoliere.
Ambretta Cacciaguerra, nipote del conte latifondista di Ordona e proprietaria, insieme a Giorgio e Ilaria, dei circa trenta ettari su cui si estende l’antica Herdonia, ci ha raccontato la “storia a imbuto” di questa terra: dai floridi anni Sessanta al declino attuale. Un percorso affascinante attraverso aneddoti e responsabilità che, nel tempo, hanno sbiadito quella immagine vigorosa della più grande risorsa archeologica della Capitanata. Una storia impressionante quella del grande centro dell’antichità, una comunità talmente progredita, quella che attraversava la via Traiana, da permettersi di coniare moneta propria. L’archeologo Joseph Mertens arrivò e trovò già un tesoro che prima di lui era stato sottolineato nei diari di viaggio di uno studioso tedesco nel Settecento. Solo l’inizio di una vicenda che rappresenta la sintesi dell’incapacità di un territorio di rispettare se stesso e di valorizzarsi.
Agli albori della scoperta
Quella masseria in località “La Cavallerizza” ha una ricchezza enorme. Lo sapeva bene il conte Cacciaguerra, già prima della sua vita avventurosa che lo portò al tremendo raid in lambretta Pesaro-Bombay e del matrimonio con la prima celebre annunciatrice Eiar, Annie Ninchi. Non ci veniva quasi mai nella tenuta di campagna, salvo nei periodi del raccolto.
Il latifondo era molto esteso, e nacque grazie all’acquisto dei terreni in comproprietà con Scheggia, che da quel momento divenne il socio dell’azienda agricola Boffa, che prendeva il nome dal fondatore ascolano, Matteo, che la mise in piedi nel 1824.
“Già da allora –ci racconta Ambretta- c’era nell’aria un vento polemico, un clima litigioso, che si è trascinato fino ai nostri giorni. Nascevano problemi sulle proprietà e mio nonno era solito imporsi pur di far valere i propri diritti. Basti pensare che allora nacquero polemiche con i presunti eredi dell’azienda: uscirono come i funghi e alla fine ne erano più di cento”.
L’accordo sull’azienda si trovò solo nel 1921. E’ questo, forse, il giusto prologo per comprendere il carattere sanguigno dei discendenti del conte. Il titolo, passato a Giorgio, certo non ha più alcuna valenza, ma il sangue non si può certo dileguare insieme a quel foglio di carta. Forse per questa stessa ragione, Ambretta è da sempre considerata una rompiscatole, ma solo perché ha a cuore le sorti di quei reperti, che sono legati indissolubilmente ai ricordi felici dell’infanzia. “Ricordo che andavamo a giocare lì con i miei fratelli –ricorda Ambretta-, dividevamo le stanze pensando ai re ed alle regine. Ci lasciavamo scivolare tra quelle mura immaginando mondi lontani”. Mentre parla, gli occhi vengono velati da un filo di emozione, che rende lo sguardo ancora più radioso. Non avrebbe mai immaginato, a quel tempo, tutti i problemi che ne sarebbero scaturiti da quell’immenso tesoro.
Dev’essere stato fantastico affacciarsi, guardare fuori, e trovarsi secoli di storia nel proprio “giardino”. Una esperienza rinnovata ogni giorno, per cinquant’ anni.
Ma non sono state poche le occasioni in cui quel tesoro rischiava di andare perduto. Come nel 1921. “Dopo l’acquisto dei terreni –dice Ambretta- l’Acquedotto pugliese pensò di far passare una condotta proprio sul Foro romano. Una pazzia cui si oppose mio nonno, ben prima che venisse vincolata l’area, negli anni Cinquanta”.
Lo sforzo successivo fu quello di Franco Cacciaguerra, agricoltore e pittore, che si prodigò affinché il sito divenisse fruibile alla gente. Ambretta, infatti, sottolinea che “non ci sono mai stati vincoli alle visite”, ecco perché il Consiglio di stato dette parere negativo alla espropriazione, perché “non esisteva una reale esigenza di pubblica utilità”, visto che comunque l’area è sempre stata fruibile.
L’occasione perduta e il declino
“Gli anni più belli sono stati quelli dei belgi, quando la palla è passata in mano agli italiani sono nati i problemi –afferma Ambretta-. Negli anni Sessanta metà degli ordonesi lavorava agli scavi, quando poi i fondi cominciarono a scemare, quelle mansioni venivano svolte dagli studenti universitari. Sono gli anni dell’interesse di Volpe, allora all’Università di Bari, il quale decise di trasferirsi a Foggia proprio per seguire meglio i lavori di Herdonia”.
In realtà, tuttavia, sono gli anni Ottanta ad offrire le maggiori possibilità di sviluppo. Dopo un progetto di itinerario turistico-culturale da 200 milioni di lire del 1982, si passa alla grandissima possibilità offerta dall’allora assessore regionale al Turismo, il foggiano Peppino Affatato: 14 miliardi a fondo perduto. Nelle intenzioni, si sarebbe dovuto realizzare un centro congressi per il Subappennino –come Pugnochiuso per il Gargano-, un camping e una grande lavoro di restauro. Era il periodo di maggior peso per la politica foggiana. “Senonchè –ricorda Cacciaguerra- il Comune, allora amministrato da De Luca, mi propose di gestire il ristorante. Insomma, voleva demandare tutte le incombenze al privato, rientrando comunque nel finanziamento. Non fu quella l’unica occasione in cui, fatto un accordo, ci furono tentativi di operazioni alle nostre spalle. Come quando concedemmo un comodato d’uso, mentre il Comune lavorava alle spalle per l’esproprio”.
Poi nacquero i problemi con la Soprintendenza, in particolare con Ruggiero Martinez. “Emise una serie di pareri contrari anche alla posizione intrapresa dal Ministero –ci dice- soprattutto nei periodi successivi ai nostri successi nei contenziosi”. Delle piccole ripicche, insomma, che hanno rallentato un iter già caratterizzato da tempi biblici. Qualcosa si starebbe sbloccando, dall’esproprio dei terreni del Foro al completamento del museo (per il quale sta per arrivare quasi un milione di euro, dopo il milione già speso dall’ex sindaco Michele Pandiscia, che non ha mai inaugurato la struttura). “Il paese è troppo piccolo –conclude Ambretta- e non ci sarebbe il personale per gestire sia il sito che il museo. Noi ci siamo stancati e cediamo, speriamo solo che i soldi servano a tutelare questo patrimonio immenso”.