È riemersa sul piccolo schermo la figura di Maria Cursio, donna di San Nicandro Garganico, oggi 63enne, già condannata in via definitiva per associazione mafiosa, traffico di droga e detenzione di armi. La sua presenza in un servizio trasmesso da Le Iene su Italia Uno ha riportato l’attenzione pubblica su una delle pagine più oscure e feroci della mafia garganica: la faida tra la sua famiglia e quella dei Tarantino, sette fratelli noti per estorsioni, furti di bestiame e una brutale spregiudicatezza.
Madre dell’ergastolano Matteo Ciavarrella, considerato tra i protagonisti indiscussi della vendetta armata che insanguinò la provincia, Maria Cursio fu per anni l’anima silenziosa – ma influente – del clan alleato con i Li Bergolis. Il suo nome fu spesso accostato alle decisioni più spietate e vendicative maturate tra le mura domestiche.
Tutto ebbe inizio nel 1981, con la misteriosa sparizione di cinque componenti della famiglia Ciavarrella, una “lupare bianca” mai risolta. Ma il punto di non ritorno fu l’omicidio di Antonio Ciavarrella, padre di Matteo e marito della Cursio. Da quel momento il giovane, allora poco più che un ragazzo, passò dall’essere un ambizioso boss a un implacabile esecutore di morte. A raccontarlo è Rosa Di Fiore, prima moglie di Pietro Tarantino e poi compagna di Ciavarrella, la cui relazione con la donna fu vista come un ulteriore sfregio al clan avversario. “Mi picchiava sempre. Per lui avere fatto un figlio con me era solo una vendetta ai Tarantino”, ha raccontato Di Fiore mentre era collaboratrice di giustizia.

Nelle sue dichiarazioni agghiaccianti, la donna ha parlato di uccisioni efferate, di Matteo che le raccontava di “aver mangiato il sangue” di Carmine Tarantino, il primo a cadere nella scia di sangue. A seguire, nel giro di pochi mesi, furono uccisi Luigi e Antonio Tarantino. Rosa era lì, chiusa in casa, costretta ad assistere. La madre, Maria Cursio, puliva il sangue del figlio, mentre gli omicidi si moltiplicavano.
Secondo gli inquirenti, Cursio non fu solo madre premurosa, ma figura centrale nella gestione criminale del clan. Venne inizialmente condannata a 20 anni di carcere anche per i delitti di Daniele Scanzano e Antonio Daniele Graziano, ma fu poi assolta per gli omicidi in Appello e condannata a 8 anni per reati di mafia. I giudici, nella sentenza del maxiprocesso “Iscaro Saburo”, citarono numerosi dialoghi intercettati tra lei e il figlio in cui si discuteva di vendette e percezioni di minaccia basate anche su semplici sguardi.
Dalle indagini emerse un mondo chiuso, feroce, governato dal sospetto e da una logica di sangue dove persino un “guardare storto” poteva essere letto come un segnale da eliminare. È in questo contesto che maturarono gli omicidi, spesso eseguiti in pieno giorno, sotto gli occhi della comunità terrorizzata.
Oggi Matteo Ciavarrella è all’ergastolo. Maria Cursio ha scontato la sua pena. Rosa Di Fiore, la testimone chiave che contribuì a far riconoscere ufficialmente allo Stato l’esistenza della mafia garganica, ha vissuto per anni sotto protezione con i suoi quattro figli (tre Tarantino e un Ciavarrella). “Stiamo facendo una vita normale”, ha detto.
Eppure, di quella guerra fratricida restano ancora gli echi. Si dice che figli e nipoti di Giovanni e Luigi Tarantino, caduti nella faida, siano ancora sulla scena criminale. Un’eredità di violenza difficile da estirpare, in un territorio dove le donne, come Maria Cursio, hanno avuto un ruolo meno visibile, ma spesso decisivo.