“Ritorsione”, “rappresaglia” nei confronti del lavoratore “non gradito al datore di lavoro”. Sono le parole usate dalla giudice Aquilina Picciocchi del Tribunale di Foggia per respingere – è la quarta sentenza sul caso – il licenziamento illegittimo del sacrista del santuario di San Pio, Antonio La Porta. La fondazione dei frati cappuccini ha insistito per tenerlo lontano dai luoghi sacri (a giugno scorso è stato licenziato per la terza volta, il 19 dicembre ci sarà un’altra sentenza, NdR), perché “colpevole” di aver contribuito al riconoscimento di un “salario minimo” per la categoria, attivandosi nell’attività sindacale. Un “peccato mortale” per i frati, che sinora le hanno provate tutte pur di fargli pagare questo impegno, il cui risultato pratico secondo i religiosi sarebbe stato un esborso “insostenibile”, al punto che avrebbe determinato la chiusura e il licenziamento di tutti i dipendenti.
“L’espulsione” di La Porta dalla Fondazione che porta il nome di San Pio da Pietrelcina risale infatti a maggio 2023, quando in una lettera venne scritto che l’aumento della retribuzione di “300 euro al mese”, e l’inserimento dei buoni pasto da “6 euro al giorno” (oltre ad altri miglioramenti delle condizioni dei lavoratori del santuario di Santa Maria delle Grazie di San Giovanni Rotondo, avrebbero comportato “maggiori esborsi insostenibili per un ente ecclesiastico che si aggirano in oltre 3-400 mila euro all’anno, andando a colpire l’ente appena uscito dalla grave crisi pandemica e dall’attuale crisi energetica”. Per questo, etichettarono con questi termini il dipendente in questione: “È più avvezzo a fare il sindacalista occulto di se stesso che il sacrista”. Pertanto, scrissero, “siamo costretti a rivedere la sua organizzazione di lavoro per quanto riguarda il servizio sacristi, a cui lei è adibito, affidandone lo svolgimento integralmente alle suore con rapporto di volontariato, non essendo sostenibile l’adeguamento all’allegato A del nuovo CCNL Sacristi”. E ancora: “La sua posizione come addetto al servizio viene soppressa e, non essendo possibile allocarla in altra posizione all’interno della Fondazione, siamo costretti a comunicare il suo licenziamento per giustificato motivo”.
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Questa posizione è stata portata in tribunale più volte, anche entrando nel merito delle questioni. E tutte le volte i giudici hanno dato ragione a La Porta. A cominciare dall’obbligo di repechage, ovvero il divieto di licenziare un dipendente che possa svolgere una mansione equivalente nell’impresa. Peraltro, secondo quanto riportato anche nell’ultima sentenza del 7 novembre, “sono rimasti in servizio alcuni dipendenti ‘aventi contratto applicato CCNL sacristi, con minore anzianità e minore carico di famiglia, sicuramente intercambiabili e con mansioni esplorabili anche da La Porta”. Su questo aspetto, non è mai arrivata una risposta precisa della Fondazione, ma solo generiche deduzioni. “Deve ritenersi – ha scritto la giudice – che il motivo determinante del licenziamento sia a carattere ritorsivo – e dunque illecito -, avendo il ricorrente svolto un ruolo fondamentale” nell’approvazione del nuovo contratto. Per le stesse ragioni, la sentenza conclude che il datore di lavoro ha licenziato La Porta per ritorsione.
Il presunto ‘raggiro del vescovo’ e le motivazioni della condanna
La vicenda ha assunto caratteri grotteschi dopo il licenziamento (l’ennesimo) del 5 ottobre 2023. Persino il giudice si è stupita del “tenore” della contestazione, che prendeva le mosse da una lettera del 28 settembre 2023 con la quale la Fiudacs (federazione tra le unioni diocesane addetti al culto/sacristi) aveva comminato a La Porta, nella sua qualità di presidente di Manfredonia, Vieste e San Giovanni Rotondo, “l’espulsione dalla federazione e la decadenza dalla relativa carica”. Il motivo? Non avrebbe pagato la quota associativa annua nel 2023 e sarebbe stato oggetto di una mail “inviata dall’arcivescovo Francesco Moscone il quale dichiarava di essere stato ‘raggirato al fine di far nascere un’unione diocesana sacristi nella sua diocesi, la quale fin da subito aveva dimostrato di avere interessi unicamente in materia sindacale ma non in linea con lo Statuto della stessa unione e con quello di Fiudacs e comunicava la sua intenzione di annullare il riconoscimento dell’Unione diocesana”. Tutto questo avrebbe determinato “gravi danni di immagine”, generati da “atti gravissimi per la violazione della riservatezza legata all’attività pastorale e al ministero sacro svolto nella Chiesa mediante la diffusione di notizie conosciute in ragione del servizio e per essere comportamenti gravi e comprovati che ledono la dignità della Fondazione e di tutto il contesto ecclesiale in cui l’Ente è collocato e confliggono con i suoi principi”. La Fondazione ha così preso la palla al balzo per intraprendere una nuova iniziativa legale con l’obiettivo di tenere lontano La Porta dal suo posto di lavoro.
Il giudice, tuttavia, è stato chiaro: “Nessuna delle condotte addebitate al ricorrente è suscettibile di integrare gli estremi della giusta causa”. Inoltre, i fatti descritti nella lettera della Fiudacs attengono “ad un rapporto che non coinvolge minimamente la Fondazione datrice di lavoro”. “Nella specie – precisa la giudice -, non si comprende come l’omesso versamento della quota associativa, ove anche effettivamente verificatosi, possa aver inciso sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione cui è tenuto il dipendente, riflettendosi sulla funzionalità del rapporto di lavoro”. “Altrettanto deve dirsi per le due “diverse mail” inviate dall’Arcivescovo di Manfredonia, Vieste e San Giovanni Rotondo agli organi della F.I.U.D.A.C./S. – aggiunge -, e delle quali si ignora finanche il contenuto, con conseguente impossibilità di delineare i contorni del preteso raggiro perpetrato da La Porta al fine di ottenere il riconoscimento dell’Unione Diocesana Sacristi da lui presieduta”. Da tutto questo si evince “la completa inconsistenza dei motivi formalmente addotti quale giusta causa di licenziamento, non v’è chi non veda come l’unica ragione effettiva del recesso risieda – secondo una valutazione globale fondata sull’id quod plerumque accidit – nel perdurante intento di rappresaglia manifestato dalla Fondazione nei confronti del lavoratore già in occasione del pregresso licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poi dichiarato nullo”. Nell’ultima sentenza, la giudice ha annullato ancora una volta il licenziamento, condannando la fondazione del ministro provinciale padre Francesco Dileo, rappresentata da padre Aldo Broccato, al pagamento di 22mila euro per le mensilità dovute (somme aggiornate al nuovo contratto, compensate dal Tfr già versato) e delle spese di lite, calcolate in 5mila euro oltre oneri. Ora anche gli altri lavoratori potranno chiedere il riconoscimento degli aggiornamenti previsti nel contratto collettivo. Una vittoria che dà un senso nuovo anche al “peccato originale”, l’impegno sindacale che è costato il posto di lavoro a La Porta.