Gambizzato il 7 gennaio scorso, in via Capitanata nel rione Candelaro. Michele Bruno rimase ferito a un polpaccio. Nulla di grave, tanto che si pensò a questioni di poco conto. Non riconducibili a guerre di mafia. Ma le carte sui recenti arresti nel clan Moretti-Pellegrino-Lanza, raccontano un’altra storia. La scintilla scoccò a Capodanno, col fermo di Nicola Valletta, uomo dei Moretti, beccato con le armi in macchina, probabilmente mentre si apprestava a commettere un agguato. Secondo il lavoro di intercettazione, i Sinesi-Francavilla, dopo aver appreso dei piani di Valletta, erano passati all’azione quel pomeriggio del 7 gennaio, in via Capitanata.
Ecco cosa è emerso durante le indagini effettuate nei giorni successivi a questi avvenimenti. Francesco Abbruzzese, tra gli arrestati dalla polizia nell’operazione contro i Moretti-Pellegrino-Lanza, riferì ai suoi interlocutori che i Sinesi-Francavilla si erano decisi a sparare perché avevano visto quella “mossa” (l’arresto di Valletta) “ed aggiunse – scrive il pm della DDA – che se quando hanno sparato a Michele Bruno prendevano anche loro, presenti al momento dell’agguato, li facevano male”.
Ad essere intercettati Abbruzzese e Perdonò, anche lui finito in manette. Proprio quest’ultimo, parlando dell’agguato ai danni di Bruno, riferì che gli esponenti del clan avverso “potevano fare un massacro”, visto che molti dei loro sodali erano presenti sul luogo dell’agguato e la cosa non andò a buon fine solo perchè, a dire di Abbruzzese, ‘quello non è buono’. “Con questa frase – scrive il pm – Abbruzzese testimonia che aveva riconosciuto l’autore del tentato omicidio ai danni di Bruno e quindi il clan si poteva vendicare”.
Pronti per un nuovo agguato
Il sostituto procuratore evidenzia come Abbruzzese continuasse a criticare i sodali del clan avverso “dicendo che non erano buoni a niente ed in particolare faceva riferimento ad una persona, senza menzionarla, che aveva mandato i killer a compiere un’agguato. A tal proposito, Massimo Perdonò fece riferimento ad una persona che aveva il padre che si chiamava Rocco (quest’ultimo dovrebbe essere morto – scrive il pm sospettando si tratti di Rocco Dedda, vicino ai Sinesi, ultima vittima di questa guerra di mafia), il quale riceveva sempre raccomandazioni da parte del genitore che gli diceva di aprire gli occhi e scegliere bene con chi doveva stare “per strada”. Gli intercettati riferivano di discussioni che avevano avuto con questa persona che probabilmente era l’obiettivo appartenente al clan avverso che loro volevano colpire. I tre (Abbruzzese, Perdonò e Alessandro Moretti) – scrive ancora il pm -, tornando a parlare dell’agguato a Michele Bruno, dicevano che i “bastardi” che hanno sparato non si sono preoccuparono neanche del fatto che sul posto c’era un bambino che rischiò di essere colpito e poi Moretti descrisse le lesioni riportate da Bruno, testimoniando in maniera inequivocabile che egli era presente sul luogo dell’agguato”. Abbruzzese riferì persino che i killer avevano sparato colpi di arma da fuoco calibro 7,62 con un mitra tipo UZI, “particolare che poteva sapere solo chi era presente sul luogo dell’agguato”.
In una conversazione intercettata sempre all’interno dell’autovettura in uso ad Alessandro Moretti (anche lui arrestato nel blitz della polizia), Abbruzzese spiegò che dovevano andare da tale “Matone” persona allo stato non identificata, in quanto gli doveva “dare la cosa”, visto che lui venerdì (15 gennaio scorso, visto che la conversazione avvenne lunedì 11) doveva “operare”, “significando – scrive il pm – che probabilmente aveva intenzione di commettere un attentato ai danni di esponenti del clan avverso. Il fatto che Abbruzzese voleva sparare ad un esponente del clan avverso non è una semplice supposizione investigativa – aggiunge il pm della DDA -, ma l’analisi della stessa conversazione in argomento. Infatti il giovane, con dovizia di particolari, descriveva al sodale le modalità con le quali intendeva compiere l’agguato, dicendo che lui si metteva sotto al cruscotto e sparava “tanto le botte” entravano lo stesso”.