Lavorare quasi tutto il giorno e portarsi a casa 400 euro dopo 2 mesi. Sotto il sole rovente del Mezzogiorno con la calura estiva. Peggiorano le condizioni di lavoro dei migranti nell’agricoltura, in particolare in provincia di Foggia, terra del “Ghetto” di Rignano. L’ultimo rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti in agricoltura (“TERRAinGIUSTA”), realizzato ad aprile dai medici per i diritti umani (Medu), consegna un quadro pietoso, con storie di lavoratori stranieri “pagati con un pezzo di pane”. “È il frutto di testimonianze e dati raccolti nel corso di 11 mesi in 5 territorio dell’Italia centrale e meridionale – ha spiegato la coordinatrice del progetto, Giulia Anita Bari, durante la presentazione nella sede della Cgil di Foggia -, che denunciano la drammatica attualità delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura: lavoro nero o segnato da gravi irregolarità, sottosalario, caporalato, orari eccessivi di lavoro, mancata tutela della sicurezza e della salute, difficoltà nell’accesso alle cure, situazioni abitative ed igienico-sanitarie disastrose”.
Boom di presenze, ormai nei campi lavorano solo i migranti

Le cifre negli elenchi anagrafici sono spaventose. Soprattutto nei comuni a vocazione agricola (oppure orticola). Si registrano infatti punte di presenze pari al 70-80 per cento, con alcuni esempi emblematici. A Lesina, per esempio, il 92,1 per cento dei lavoratori è straniero. Seguono Apricena (76 per cento), Foggia (70,5) e Manfredonia (62,9).
“Un punto cruciale – spiega il segretario generale della Flai Cgil di Capitanata, Daniele Calamita – è la percentuale di migranti che superano le 51 giornate (soglia minima per aver diritto alla disoccupazione agricola) che come dato medio non supera il 25,2 per cento dei totali, mentre per gli italiani il dato si attesta al 74,7 per cento)”. Qualcosa, evidentemente, non quadra. Evidentemente per la gran parte dei migranti non vengono nemmeno dichiarate le giornate reali per accedere al sussidio. “Se alla condizione di sfruttamento e di pressoché totale soggezione al caporale si associa l’assenza di contratti regolari e permessi di soggiorno – precisa Calamita -, la stima empirica assume i tratti di una tragedia umanitaria. Nel periodo estivo, durante la raccolta del pomodoro, gli irregolari sono circa 15mila.
30 milioni di euro in due mesi, lo spaventoso giro d’affari
Le stime economiche consegnano uno spaccato impressionante. Se si considera il 2013, infatti, con una superficie di circa 27mila ettari coltivati a pomodoro, con una produzione tra i 700 ai 1500 quintali ad ettaro, si può calcolare la produzione complessiva in 27 milioni di quintali. I bins (le casse da 3 quintali utilizzate per il trasporto del pomodoro) sono 9 milioni. “Un lavoratore – spiegano dalla Cgil – raccoglie mediamente un bins ogni ora, arrivando a 10 cassoni al giorno. Questo significa che le giornate lavorative sono circa 900mila. Nel periodo di massima intensità, tra giugno e luglio, si stimano 15mila giornate lavorative quotidiane (ovvero 15mila lavoratori per gran parte irregolari).
Rispetto a questi numeri, un caporale che specula da ogni proprio schiavo 1-2 euro a cassone, genera introiti complessivi in una forbice tra 8 e 18 milioni di euro“. Ma non basta. Bisogna aggiungere la gestione delle abitazioni nei ghetti (il fitto è di 200 euro a testa, solo a Rignano sarebbero 500mila euro). Il panino “consegnato agli schiavi”, sul quale c’è un guadagno di 2-3 euro, con un business da 2,7 milioni. Ancora, “il caporale specula anche sulla ricarica del cellulare (3 euro a operazione), che diventano un milione di euro se si considera la frequenza di 2 giorni per ogni servizio”. Dalla semplice addizione si deduce un giro d’affari tra 21 e 30 milioni di euro. Di tutto questo, ai migranti rimangono le briciole. “Il guadagno in due mesi di lavoro è di 27-36 milioni di euro – spiega Calamita -, se si sottrae a questo la speculazione del caporalato, restano 4-500 euro a testa per due mesi di lavoro (6-7 milioni per 60 giornate).
La difficile battaglia per la legalità

“Non è una terra ingiusta, la terra non ha nessuna colpa, il problema è il trasferimento della camorra armi e bagagli in Capitanata”. Non usa mezzi termini Mimmo Di Gioia, coordinatore di Libera Foggia, quando ricostruisce le “ragioni” dell’invasione della criminalità nei campi: “C’è una data, il 1979, ed un luogo preciso, l’hotel Florio – ricorda Di Gioia -, in quella occasione l’allora boss Raffaele Cutolo strinse un patto con 40 ladroni, compresi imprenditori e politici. La camorra prima di tutti ha fiutato il business delle campagne della provincia, ed ha cominciato a fornire ‘servizi’, come fu il trasporto dei pomodori alla Cirio. Parte da allora il cancro, per questo si continua a schiavizzare i migranti, che a volte lavorano senza percepire un euro, ma solo per un pezzo di pane”.
Per questo la Caritas, attraverso le diocesi Foggia, Trani e Nardò, ha cercato di analizzare il fenomeno con il progetto “Io ci sto”. “I dati raccolti – spiega la referente Concetta Notarangelo -, raccontano spaccati disastrosi. Basti pensare che 2 migranti su 3 vivono in alloggi indecenti. Per di più, il tasso di scolarizzazione di molti è bassissimo, questo fa emergere davvero molti dubbi sulle reali ragioni degli spostamenti dal Paese d’origine”. Una quesitone dibattuta, anche perché a drogare il mercato, con un abbassamento del costo del lavoro del 50 per cento, sono i richiedenti asilo. “Coloro che hanno un alloggio – conclude Notarangelo – e per questo si sentono ‘privilegiati’ e possono accettare una paga più bassa. Nella più bieca delle guerre tra poveri”.