“Eravamo mafiosi. Ciò vuol dire avere il potere, vuol dire decidere, vuol dire comandare, vuol dire l’andamento delle cose, vuol dire decidere della vita degli altri, vuol dire comandare la droga, vuol dire avere agganci politici, vuol dire quello che volete, tante cose vuol dire per me”. Così Matteo Pettinicchio, 40 anni, primo pentito nella storia del clan dei montanari Li Bergolis-Miucci-Lombardone, il più spietato di tutta la provincia di Foggia e tra i più temuti a livello nazionale. L’uomo, ex braccio destro del boss reggente Enzo Miucci alias “U’ Criatur”, ha raccontato decenni di storia criminale nel processo “Omnia Nostra” al clan rivale Lombardi-Scirpoli-Raduano, attivo tra Manfredonia, Macchia, Monte Sant’Angelo e Vieste.
Il condizionamento della politica
Pettinicchio ha parlato di mafiosità e dell’influenza criminale della sua organizzazione in tutto il promontorio garganico: “Quando andavamo noi al Comune a chiedere un piacere, agli altri non glieli facevano e a noi sì. Quando andavamo da un commerciante, quando andavamo da una brava persona, quando andavamo da un avvocato, da un ingegnere, gli altri pagavano, io dicevo: ‘Quanto viene?’, dicevano: ‘Non viene niente’, questo per me vuol dire essere mafiosi“.
Secondo il pentito, il clan dei montanari non aveva nemmeno bisogno di imporsi con violenza, bastava presentarsi: “Quando si va al Comune, quando si va in qualsiasi luogo si sa chi si ha davanti, sia da una parte che dall’altra, quindi quando ti presentavi non c’era bisogno di dire: ‘Io sono Tizio, appartengo a X’, già sanno chi sei e si mettono a disposizione perché c’è una sorta di riverenza, di paura nei confronti di te e del gruppo di appartenenza, per me questo vuol dire mafiosità. Nel 2009 sono andato al Comune che mi serviva la domanda per la discoteca, che non si poteva firmare, siamo andati io e Andrea Barbarino al Comune di Monte Sant’Angelo e, per dire, il sindaco dice: ‘Va bene, autorizzo’. Dovevo aprire la discoteca il ‘Decò’ a Macchia, poi Barbarino viene ammazzato dopo 20 giorni, ci abbiamo anche rimesso i soldi”.
La fiducia del boss
Poi sulle affiliazioni ha spiegato di essere entrato nel clan proprio per la sua amicizia con Andrea Barbarino attraverso il quale conobbe il boss Armando Li Bergolis, da anni al 41 bis: “Non ci sono riti di affiliazione, io ero molto vicino a Barbarino e poi negli anni subito seguenti ad Armando Li Bergolis. Quando dovevamo incendiare la macchina al costruttore, diceva: ‘Matteo, tu te la senti? Andiamo a incendiare la macchina al costruttore’, facevamo i furti… Abbiamo rubato, per dire, i camion a quelli che vendevano la frutta per fare il cavallo di ritorno e loro ci davano 40.000 euro per restituire… Era 30.000 euro per restituire un camion e tre furgoni che la mattina dovevano lavorare, quelli li parcheggiavano uno davanti l’altro nel… come si dice? Nel garage e lasciavano le chiavi nel quadro, noi lo sapevamo, andavamo la notte, aprivamo il garage e rubavamo i furgoni, il camion, io, Barbarino con altre persone, per fare il cavallo di ritorno”.
“Armando Li Bergolis mi aveva preso in simpatia, mi aveva preso comunque a cuore, quindi spesso andavo la mattina anche in campagna con lui dove si stava costruendo la casa e veniva anche Michele Santoro detto ‘Mangiafave’, si parlava dei costruttori da cui prendevano il pizzo, c’avevano i custodi, i guardiani, imponevano la guardiania per prendere i soldi dagli imprenditori all’epoca, ma anche a Monte Sant’Angelo, non solo a Manfredonia. Armando aveva la sorveglianza e se c’era qualche problema e io ero presente a parlare non mi faceva allontanare perché diceva: ‘Pote sta cumba Matteo perché è roba nostra’, uno dei tanti esempi”.
E ancora: “Crescevo in mezzo a loro, li sentivo parlare, non è che io parlavo, mettevo bocca, quando loro parlavano io ascoltavo perché non avevo né l’età né la caratura e né l’esperienza per parlare, quindi ascoltavo quello che dicevano loro e come parlavano fra di loro, a me se mi chiedevano: ‘Vuoi andare a incendiare la macchina?’ io andavo, senza fare domande. Poi il 2006 è uscito Miucci, dal giorno che è uscito ci siamo visti il giorno stesso, anche perché gli altri sono andati in carcere nell’Iscaro Saburo. Nell’Iscaro Saburo io stavo con la figlia di Matteo Lombardi Lombardone, quindi ho vissuto anche quel periodo di quando è stato ucciso Santoro Mangiafave, c’erano cose più grandi di me perché io ero ragazzino, le ho vissute sulla mia pelle“. Riferimento alla guerra che scoppiò tra i montanari e i fratelli Franco e Mario Luciano Romito, inizialmente alleati e poi rivali dopo il “tradimento” di Orti Frenti che portò al blitz “Iscaro-Saburo” del 2004, un’operazione conclusasi con 99 arresti e una sentenza definitiva di condanna che per la prima volta riconobbe l’esistenza della mafia sul Gargano.
I rivali da eliminare
Inevitabili le domande sul clan Lombardi-Scirpoli-Raduano a processo in “Omnia Nostra”. Tra i principali imputati spicca Francesco Scirpoli detto “Il lungo”, 42enne di Mattinata: “Scirpoli era un fedelissimo prima di Franco e poi di Mario Romito – ha ricordato il collaboratore di giustizia -. So che ha commesso rapine, omicidi, tutto. Anche con Lombardi, con La Torre, con Ricucci, con tutti. Di estorsione pure si occupava, però io non so precisamente dove ha fatto le estorsioni”.
Ha anche ricordato il progetto di duplice omicidio ai danni di Scirpoli e di Francesco Gentile detto “Passaguai”, quest’ultimo poi ucciso il 21 marzo 2019. “Il sopralluogo che avevamo fatto era al distributore che si trova all’esterno di Mattinata, diciamo sulla circonvallazione, all’entrata di Mattinata sulla destra c’è un distributore di benzina con bar, con una doppia entrata… E lì c’è una strada che dal mare porta a una strada secondaria che fiancheggia questo bar che aveva una doppia entrata e una notte siamo andati io e Miucci a vedere perché sapevamo che ogni tanto la mattina si vedevano in questo bar, in questo distributore Scirpoli e Gentile. Era il 2017 è la finalità era quella di ucciderli“.
Alla fine sembrava tutto deciso per un agguato al circolo Casablanca, altro luogo di ritrovo dei nemici dove in effetti Gentile subì un agguato ma riuscì a scappare dalla finestra: “Dovevo andare io visto che la macchina e le armi le avevo messe io. Dovevo andare ma avevo il gesso alla gamba e Miucci mi disse: ‘Ma dove devi andare? Neanche a guidare, un inseguimento, una cosa, dove te ne devi scappare con questo gesso alla gamba?’. Il giorno prima erano fuori, sempre il Casablanca, c’erano sia Scirpoli che Gentile, Scirpoli stava appoggiato col piede al muro. È arrivata la chiamata di chi li guardava ma fuori era pieno di persone, non so se c’era stato qualche evento, processione, non vi so dire, però c’erano anche dei bambini, delle donne e chi era andato per fare l’agguato ha evitato perché essendoci tanta gente volevano evitare di colpire persone innocenti, poi quando sono tornati sono venuti a parlare con me, mi hanno spiegato tutta la situazione, io ho detto: ‘Scusate, perché non avete fermato la macchina prima, c’è la discesa e andavate a piedi’, dice: ‘No Matteo, stavano proprio assai di persone’, ho detto: ‘Avete fatto bene, tanto o oggi o domani cambia poco, tanto bene o male se non è oggi o domani, in questi giorni li troviamo sempre allo stesso posto’, e così fu, solo che Scirpoli il giorno dopo non c’era, c’era solo Gentile in questo club”. Il resto è storia.