Sapevate che ogni anno lo Stato versa oltre 36 milioni* di euro ad agenzie di stampa e varie aziende editoriali? Si tratta di acquisto di servizi giornalistici e informativi da parte del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio e rappresentano in diversi casi quasi l’unica fonte reale di reddito che consente a diverse testate giornalistiche di restare in piedi. E non stiamo parlando di piccole realtà periferiche, ma di Ansa, AdnKronos, Agi, Il Sole 24Ore… solo per citare i più grandi, ma ci sono anche quotidiani come Libero, Avvenire, Manifesto e Foglio che invece percepiscono contributi diretti a sostenere il pluralismo dell’informazione che arrivano alle testate costituite in forma di cooperativa. Insomma, tanti soldi con cui lo Stato di fatto ‘mantiene’ una fetta cospicua di informazione italiana. Certo, da un lato conosciamo la crisi pesantissima del settore – soprattutto della carta stampata che vende sempre meno, in alcuni casi non vende affatto! – e dall’altro siamo consapevoli del mondo che è completamente cambiato dopo l’avvento dei social network. Quel mondo in cui ‘siamo tutti giornalisti’.
La domanda però è di quelle pesanti: è vera libertà quella di una informazione che deve allo Stato la propria sopravvivenza? Le testate libere economicamente – molti giornali non percepiscono un solo euro pubblico – sono più libere di tutte le altre? Di certo saranno libere da un debito di riconoscenza verso lo Stato. Questo sì. Però dovremmo conoscere nel dettaglio come si mantengono queste altre: quanti sono gli editori puri e quanti sono invece quelli che hanno interessi in altri campi dove, inevitabilmente, l’informazione rischia di esserne influenzata?
L’Italia, in termini assoluti, non è certamente un paese in cui la libertà di stampa venga minacciata o sia del tutto assente come nei regimi totalitari e nelle finte democrazie. Non è certamente questo il tema. Per fortuna. Ne esistono però altri su cui vale la pena soffermarsi, a parte quelli già citati. Ad esempio, qual è il confine tra informazione e opinione? Quand’è che un giornalista deve saper distinguere tra resoconto giornalistico e desiderio – a volte irrefrenabile – di raccontare il proprio punto di vista mescolando pericolosamente fatti e commenti?! Perché è questo, drammaticamente, uno dei grandi temi che andrebbero affrontati: la distinzione – perché esiste! – tra informazione e opinione. La distinzione tra chi esercita la professione prendendo sempre le parti di qualcuno, cosa largamente diffusa nel settore politico, e chi si sforza di mantenere la giusta distanza. A chi scrive e racconta ogni giorno la politica andrebbe ricordato che essere dalla parte di qualcuno – chiunque esso sia – non è obbligatorio.
Lo scenario di guerra ha forse ri-aperto territori poco esplorati finora (e speriamo si richiudano al più presto). Molti si stanno chiedendo da qualche ora se è lecito intervistare il ministro di uno Stato che si ritiene, quasi universalmente, essere l’aggressore di un altro Stato. La grande Oriana Fallaci ha intervistato, tra gli altri, Khomeini e Gheddafi. Più di recente, la bravissima Lucia Goracci non ha forse tenuto una memorabile intervista al presidente turco Erdogan? Dunque la domanda può essere una soltanto: il giornalista di Rete4 ha condotto l’intervista in modo obiettivo oppure no? Certo, non sarà stato mordace come le colleghe sopracitate, però ha fatto il suo. E diciamola tutta: quanti avrebbero voluto farla l’intervista a Lavrov? Quanti, nel Servizio pubblico, avrebbero potuto farla ma si sono astenuti proprio perché consapevoli delle polemiche che ne sarebbero scaturite? Ed ecco – non è la prima volta – che il privato ha prevalso sul pubblico. Mediaset, che proprio non brilla quanto a offerta informativa, ha surclassato la corazzata Rai.
Un’ultima annotazione. La crisi pesantissima della carta stampata ha prodotto una emorragia di giornalisti che abbandonano le navi che affondano principalmente cercando di riparare nelle televisioni e negli uffici stampa. Anzi, in modo particolare, negli uffici stampa politici. Una volta non sarebbe mai accaduto. Oggi si potrebbero fare diversi nomi di colleghi anche blasonati che si sono riciclati come portavoce di questo o di quell’altro esponente politico. Come se fosse, poi, la stessa professione… ma questa è un’altra storia! Il punto è che gli eccessi di contiguità tra professione giornalistica e politica (leggi: partiti) sono il risultato di un lungo percorso di autopenalizzazione di una categoria che nei paesi anglosassoni spesso fa davvero paura, ma che qui in Italia ha finito per diventare una sorta di ‘classe di riserva’ di un settore, quello politico, che per certi versi sta messo pure peggio. E comunque, viva la libertà di stampa!
*fonte: The Post Internazionale