L’istituto dell’interdittiva antimafia va rivisto. Ne è convinto il numero uno della Direzione investigativa antimafia, Maurizio Vallone che ha espresso il suo pensiero in un’intervista a lavialibera.it, magazine di riferimento dell’associazione “Libera”. L’interdittiva, molto in voga in provincia di Foggia dove decine di aziende sono state colpite dal provvedimento, è uno strumento molto severo che spegne totalmente l’attività delle imprese per poi consegnarle ad un controllo giudiziario.
“Quando la ditta è impastata di mafia e intestata a un prestanome, l’interdittiva, che impedisce all’azienda di lavorare con le Pubbliche amministrazioni (Pa) decretandone quindi la morte, è l’unica soluzione possibile – spiega a lavialibera Vallone –. Ma ci sono casi in cui i nostri Gruppi interforze antimafia si trovano in difficoltà perché sanno che un’interdittiva basata sulla mera percezione di contiguità tra impresa e mafia non reggerebbe a un ricorso”.

Per Vallone “i casi più scivolosi sono due: aziende con centinaia di dipendenti dove un paio di lavoratori sono parenti di mafiosi oppure piccoli imprenditori vittime di racket che se dovessero vincere un appalto, magari grazie al Recovery plan, attirerebbero ulteriori appetiti criminali. Come giustificare davanti a un Tar un’interdittiva contro un’intera azienda per la presenza di parenti o contro una vittima di estorsione che lo Stato non è stato in grado di proteggere? Dobbiamo intervenire in maniera diversa, non possiamo permetterci di bloccare tutto nei tribunali perdendo così i fondi europei”. In buona sostanza, meglio aiutare tempestivamente le imprese con misure flessibili e non invasive, che intervenire più severamente ma uccidendole. La proposta di riforma del sistema è al vaglio.