Il coronavirus non ferma i procedimenti penali contro la mafia foggiana. Oggi tappa cruciale del processo al boss Roberto Sinesi, accusato di porto e detenzione illegale di una pistola con l’aggravante della mafiosità. Secondo i magistrati della DDA di Bari (pm Lidia Giorgio), il capo della batteria Sinesi-Francavilla sparò contro i tre killer che il 6 settembre 2016 provarono ad ucciderlo tra via Amorico e via San Giovanni Bosco, nel rione Candelaro. In quell’occasione rimasero feriti il boss e il suo nipotino. Per il consulente balistico dell’accusa, l’uomo rispose al fuoco; non della stessa opinione i difensori dell’imputato.
Oggi in Corte d’Assise a Foggia (giudice Civita), ha testimoniato l’agente della Penitenziaria Alfredo Terlizzi, lucerino, accusato di favoreggiamento e omessa denuncia (il boss gli fece alcune rivelazioni mentre era ricoverato). Sinesi era in videoconferenza dal carcere di Rebibbia, dove si trova in regime di 41 bis.
Terlizzi ha spiegato che il capomafia era disarmato, contrariamente ad alcune captazioni ambientali che dimostrerebbero il contrario: “Non mi ha mai detto che aveva un’arma, per questo non sentivo l’obbligo di riferirlo alle autorità giudiziarie. Sapevo solo che era stato coinvolto in un conflitto a fuoco. In ogni caso – ha ribadito l’agente penitenziario – Sinesi mi confessò di non essere armato”.
All’imputato è stato chiesto di dare spiegazioni in merito all’intercettazione in ospedale, durante il piantonamento. “Sinesi mi disse: ‘Mi sono guardato in aria per vedere se qualcuno mi lanciava un ferro’, e aggiunse: ‘Magari si avvicinavano a me, gli menavo qualche botta’, facendo il segno del pugno. Molti non sanno che Sinesi è stato un pugile“. Su quest’ultima frase, la pm ha incalzato l’imputato che ha dichiarato fermamente di non avere alcun tipo di rapporto con il boss foggiano. “L’ho incontrato nel carcere di Foggia. All’esterno non l’ho mai conosciuto. La sua esperienza da pugile professionista l’ho appresa dalla cosiddetta ‘radio carcere’“. Terlizzi ha spiegato che, solitamente, tra i poliziotti penitenziari si sparge facilmente la voce sui detenuti che praticano arti marziali o boxe. “In quella stanza di ospedale non sono mai rimasto solo con Sinesi”, ha concluso l’agente, “c’era sempre qualche mio collega a pochi metri di distanza”.
La teste: “Vidi Roberto correre con una mano sul petto”
Oggi in aula anche la testimonianza di una giovane donna – teste della difesa – residente in viale Candelaro, proprietaria di alcune telecamere che anni fa fece installare vicino a finestre e balconi della sua abitazione “perché avevo paura, ho parenti che sono stati uccisi”.
In un video, la donna riconobbe Roberto Sinesi mentre correva verso i giardini del Sacro Cuore, probabilmente in direzione dell’abitazione del figlio Francesco: “Aveva una mano sul petto (il boss fu colpito alla schiena e la pallottola si fermò all’altezza del cuore, ndr) e nell’altra non aveva niente. Si vedeva anche un’auto rossa allontanarsi (forse la 500L dei killer). E ho riconosciuto la figlia di Roberto che scappava con il bambino in braccio”. Tutte persone note alla giovane teste, amica d’infanzia di Francesco Sinesi, figlio del boss, detenuto al 41 bis nel carcere di Terni.
“Quel video lo mostrai a Francesco, glielo feci recapitare tramite la sorella perché lui era ai domiciliari. Di istinto mi venne di dare a lui il cd”. Ormai perso il filmato originale: “Si cancella in automatico dopo circa un mese”.
Alla domanda sul perché non lo abbia consegnato alle forze dell’ordine, la teste ha spiegato di non averlo ritenuto particolarmente importante: “Non si vedeva niente, solo Roberto correre e la figlia con il bambino in braccio”.
Al termine dell’udienza, la pm della DDA ha reso noto di aver depositato i verbali dell’interrogatorio del pentito Carlo Verderosa, collaboratore di giustizia dal 18 dicembre 2019. Nelle dichiarazioni dell’uomo, ex membro del clan Moretti, ci sarebbero alcune informazioni utili per il procedimento al boss Sinesi. Il processo continua a ritmi sostenuti, prossima udienza ad inizio aprile.