“Si abolisce il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina, permettendo così a tutti di poter accedere agli studi”, si afferma nel comunicato diffuso al termine del Consiglio dei Ministri che ha varato il decreto fiscale e la manovra 2019. “Sarò franco con voi. Non mi risulta”: risponde il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti a Venezia ai giornalisti che gli chiedevano dell’abolizione del numero chiuso per la facoltà di Medicina. E, in una nota congiunta, Bussetti e la collega del ministero della Salute Grillo spiegano di aver chiesto, in sede di Consiglio dei ministri, di “aumentare sia gli accessi sia i contratti delle borse di studio per Medicina. E’ un auspicio condiviso da tutte le forze di maggioranza che il governo intende onorare”. Interviene, alla fine, palazzo Chigi: “Si tratta di un obiettivo politico di medio periodo per il quale si avvierà un confronto tecnico con i ministeri competenti e la Conferenza dei Rettori delle università italiane, che potrà prevedere un percorso graduale di aumento dei posti disponibili, fino al superamento del numero chiuso”. Il caso è dibattuto in queste ore in tutta Italia. Abbiamo sentito l’ex preside della facoltà di Medicina dell’Università di Foggia, Nicola Delle Noci, che negli ultimi anni si è impegnato particolarmente per le scuole di specializzazione.

Professore, come avete accolto a Foggia la notizia del provvedimento del Governo che prevede l’abolizione del numero chiuso per l’accesso alla facoltà di Medicina?
Sarebbe un provvedimento irrealizzabile. È logisticamente impossibile.
Perché?
Faccio l’esempio dell’Università di Foggia. Da noi si sono presentati in 300, per una disponibilità di posti – fissata per legge in base alle aule e al numero di docenti – di 80. Il superamento dei test farebbe schizzare il numero delle richieste, a fronte di una impossibilità oggettiva di seguire gli studenti. Ci sarebbe un cortocircuito immenso. L’ipotesi era circolata già qualche tempo fa, nel 2014, quando l’allora ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, in occasione dell’apertura dell’anno accademico, annunciò l’ipotesi del sistema francese: lo sbarramento al secondo anno di corso con la discriminante del superamento di tutti gli esami previsti al primo anno. Ecco, questa potrebbe essere una soluzione credibile.
Da anni si parla di una grave carenza di medici negli ospedali, ma il superamento dell’obbligo dei test non sembra una soluzione. Per lei che vive le corsie, quale potrebbe essere una via d’uscita credibile?
Il tema è complesso. Spesso ci troviamo dinanzi a giovani davvero preparati, che tuttavia nel giorno delle prove non riescono ad esprimersi al meglio per diverse ragioni. L’idea di poterli tenere nei corsi sicuramente mi trova favorevole. Ma al momento è improbabile, perché già riusciamo miracolosamente ad avere aule e docenti per il numero attuale. Peraltro, con l’incremento – a parità di risorse – si costringerebbero i docenti a dedicarsi totalmente agli esami, abbandonando così la ricerca e le altre attività. In ogni caso, l’accesso alla facoltà non significa trovare una collocazione nelle strutture sanitarie pubbliche, anche per via del contingentamento delle scuole di specializzazione e delle risorse limitate per le assunzioni.
Questo è un tema che ha interessato particolarmente la Puglia, regione in cui i vertici della sanità dichiarano di non riuscire a reclutare specialisti…
Certo, bisognerebbe aprire le scuole di specializzazione, visto che solo il 40 per cento riesce ad accedervi. Ma potrebbe non bastare. Perché, se è vero che gli studenti dell’Unifg mediamente riescono ad accedervi al 50-60 per cento al primo tentativo, e all’80 al secondo, scontano poi qualche difficoltà nel trovare un impiego nel pubblico. Basti pensare che nell’oculistica ne ho specializzati 12 negli ultimi anni, ma solo uno lavora nel pubblico. Poi ci sono differenze sostanziali tra specializzazioni. Se in Puglia, per esempio, abbiamo un mare di oculisti, c’è carenza nelle aree di anestesia e rianimazione, cardiologia e riabilitazione. In ogni caso, bisogna poi poter dare una prospettiva nel sistema sanitario, che al momento non è garantita.
Sta dicendo che è sempre più difficile poter lavorare nel pubblico?
Sicuramente. Il tema è politico. Bisogna capire quale deve essere il destino del pubblico, considerata la rilevanza e la necessità di un privato che, negli ultimi anni, è stato fondamentale per la tenuta del sistema, ma che ha altre dinamiche. L’universalismo non sembra essere più sostenibile. Non ci sono risorse adeguate. In ospedale, ogni giorno, lottiamo per fornire servizi adeguati nonostante le evidenti carenze di personale. Oggi sono entrato nel mio reparto alle 8 e forse uscirò alle 17. È chiaro che se siamo ridotti all’osso, aumenteranno sempre le liste d’attesa. Servono maggiori risorse per garantire una qualità dell’istruzione all’altezza – in termini di docenti e strutture – e per le assunzioni negli ospedali. Altrimenti, qualsiasi discorso risulta essere vano.
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