Gli stili di vita sono rappresentati da due armadi. Uno, a terra, pieno di sassi, quello della salita da 2700 metri del Colle della Nasca, cara al padre. L’altro in aria, collegato ad un filo e che riflette il mondo, dalla specchiera, in un grande selfie, da scattarsi dal divano, in posizione orizzontale.
“Father and Son” di Claudio Bisio per la regia di Giorgio Gallione, tratto dal libro best seller di Michele Serra “Gli sdraiati”, grazie alla sapienza e all’innata vis comica dell’attore milanese, riesce nella mirabile impresa di rendere leggero, divertente, riflessivo e poetico il testo del giornalista di Repubblica, che per molti è stato il solito predicozzo moralista radical chic, censorio e reazionario, di una generazione nei confronti di quella successiva.
Padri e figli sono un archetipo. Si ritorna a Ivan Turgenev che nel 1862 racconta come le ideologie rappresentino elemento di scontro generazionale, ma anche ad Enea ed Anchise nel finale, quando il figlio precede il padre sulla collina sulla vetta, ma non lo attende né lo carica su di sé nella cerimonia simbolica iniziatica della passeggiata di montagna, ma lo saluta sventolando il cappello da rapper. “Ti ho chiamato. Aspettami! Ma non hai risposto. Non mi sentivi più. Finalmente potevo diventare vecchio”, è la chiosa del monologo.
In uno spettacolo così profondo e “politico”, Bisio ha regalato i giusti tempi comici, che nel pamphlet sono spesso superati dalla rabbia e dal sarcasmo. Una società di dopopadri, educatori inconcludenti e nevrotici, e di figli che preferiscono nascondersi nelle proprie felpe, sprofondare nei propri divani, circondati e protetti dalle loro protesi tecnologiche, rifiutando o disprezzando il confronto. Da questo humus nasce l’irresistibile soliloquio di Bisio in un climax ascendente, che nel finale raggiunge il sublime sulle note di Cat Stevens. L’incalzante monologo riceve un tocco magico dalle musiche eseguite dal vivo da Laura Masotto e Marco Bianchi, che puntellano i diversi momenti. La descrizione delle infinite connessioni, degli auricolari e degli schermi da vivere sul divano, l’esilarante ingresso nel tempio del consumo delle felpe, lo spassosissimo incontro con l’amica del figlio, con cui è impossibile comunicare, l’altrettanto divertente colloquio col tatuatore. E la confessione del padre, che rifiutando il potere, non ha più nessuna autorità, non è più guida per il figlio. Impotenza seduttiva e insipienza educativa, scrive Serra.
Gli spettatori, in gran numero ieri sera anche sul loggione al di là degli abbonati, hanno potuto saggiare l’estrema bravura di Bisio, che passa da un registro all’altro con perfetta naturalezza. Si vedono quasi i personaggi con cui parla, come solo i grandi mimi sanno fare, in un palco traforato da porte, in cui si immagina entrare ed uscire ora il padre nella sua nevrosi, ora il figlio che si trascina pigro con i suoi fili, non abulico, ma snob.È un monologo, ma il pubblico, grazie ad una scenografia di vivo impatto e alla dinamicità di Bisio che taglia il palco in diagonale e lo occupa anche in altezza servendosi di tavoli-pulpito come un ambone da cui “sparare” sentenze e giudizi, sente mille voci. Da quelle di Uolly e gli altri in fila per le felpe a quella interiore del figlio. Da non perdere. Stasera si replica.