Giuseppe Rogoli detto Pino torna a far parlare di sé. Ma questa volta non per affari di mafia. Il fondatore della Sacra corona unita, detenuto dal 1992 in regime di 41 bis, oggi 79enne, chiede di poter accedere a una visita oculistica fuori dal carcere per curare un occhio operato nel 2022 e mai più controllato. È quanto riporta la Repubblica Bari, che ha raccolto lo sfogo della sua legale Federica Musso: “Da due anni – spiega – sollecitiamo un accertamento medico specialistico per il suo occhio sinistro. L’ultima risposta dell’amministrazione penitenziaria è arrivata a marzo: la visita verrà effettuata a breve. Ma sono passati altri due mesi e ancora nulla”.
Un diritto alla salute, garantito dalla Costituzione, che – secondo la difesa – viene negato. A complicare tutto è il nome di chi lo rivendica: Giuseppe Rogoli, nato a Mesagne (Brindisi) nel 1946, capo riconosciuto della mafia salentina. Un nome che, nella lunga storia della criminalità pugliese, non è secondario.
“Dolore all’occhio, nessuna risposta da due anni”
Il fondatore della Scu ha affidato alla moglie Mimina Biondi una lettera in cui denuncia il proprio stato di salute e l’inerzia burocratica: “Non ci sono novità nonostante i solleciti e la querela presentata dall’avvocatessa. Finora manco l’ombra. Se l’occhio è stato danneggiato per negligenza altrui, faremo ricorso a tutte le autorità competenti”.
Secondo l’avvocata Musso, si tratta di una battaglia per i diritti fondamentali: “Il 41 bis serve a impedire i contatti con l’organizzazione mafiosa, non ad aggiungere una pena nella pena. La sanità penitenziaria non può essere un lusso”.
Le condizioni di Rogoli: cella singola e 12 acquerelli
Da oltre trent’anni Rogoli vive in una cella singola, ha a disposizione fornelli per riscaldare i cibi, un numero limitato di libri e fotografie, al massimo 12 acquerelli, e contatti ristretti con l’esterno. “È un detenuto esemplare – afferma la legale – vive con dignità, non ha mai creato problemi. Ma la salute non è un premio, è un diritto”.
Nella lettera alla moglie, il boss rivolge anche un’osservazione più ampia: “Ho letto che la Corte europea dei diritti umani ha multato l’Italia per mancato ricovero di un detenuto. Eppure si continua a ignorare, facendo conoscere il nostro Paese per lo squallore del trattamento sanitario in carcere”.
Il fondatore della mafia pugliese
Giuseppe Rogoli non è un criminale qualunque. La sua figura è centrale nella nascita della Sacra corona unita, fondata – come lui stesso scrisse in una piccola agendina – il 1° maggio 1983 nel carcere di Bari. Fu la risposta pugliese alla supremazia della camorra cutoliana, che negli anni ’70 e ’80 dettava legge in tutte le carceri del Sud.
Fu lui a tracciare le linee di un’organizzazione autonoma e verticale, senza vincoli con altri sistemi criminali. Ma la carriera criminale di Rogoli – arrestato la prima volta per furto, rapina e porto abusivo d’armi – subì un brusco arresto nel 1990, quando a Lecce si tenne il primo maxiprocesso alla Scu: 73 condanne, 22 anni di reclusione per Rogoli e, per la prima volta in Puglia, il riconoscimento giudiziario della mafia locale.
Il fallimento della conquista di Foggia
Rogoli tentò anche di espandere la Scu nel Foggiano, puntando su una collaborazione con il clan Laviano, referente foggiano dell’organizzazione mesagnese. Ma quel progetto naufragò il primo maggio 1986, giorno della strage del Bacardi nel centro di Foggia. Quattro persone vennero sterminate a colpi di fucile nel circolo di piazza Mercato: un messaggio chiaro dai clan locali. Da allora, la “Società Foggiana” iniziò a emergere con forza, segnando la fine dell’ambizione espansionistica salentina nel Tavoliere.
Oggi, la richiesta di cure fuori dalle sbarre
Oggi il fondatore della Scu, condannato anche per diversi omicidi, compresi delitti commessi per garantire la continuità dell’organizzazione, è un uomo solo, anziano, e malato. Vive dietro le sbarre dal 1992 e chiede solo di poter essere curato fuori dal carcere. Un diritto che non dovrebbe fare notizia, se a chiederlo non fosse Pino Rogoli, l’uomo che cambiò per sempre la mappa della criminalità organizzata pugliese.