A San Severo l’economia del vino ha conosciuto agli inizi degli anni Ottanta una spinta senza precedenti. Il processo di “spumantizzazione” voluto dai tre soci D’Araprì, non fu soltanto la diversificazione di un’offerta tipica locale, legata alla vinificazione porta a porta praticamente in ciascuna casa con annessa cantina di cui erano dotate tutte o quasi le abitazioni e i bassi del centro storico. Girolamo D’Amico, Luis Rapini, Ulrico Del Priore, nell’esatta ricomposizione dell’acronimo, nascono in questo mondo ma non lo assecondano fino in fondo. Volevano le bollicine, l’ambizione (idea balzana a quei tempi) era quella di aggiungere zuccheri e leviti al vino e farlo fermentare in spumante. Una miscela esplosiva e infatti l’esperimento fu maldestro all’inizio, causa di incidenti come si potrà leggere in seguito. Ma i tre soci con quella loro audacia hanno proposto un modello culturale veicolato dalla passione comune per la musica jazz, forse l’alibi per restare uniti e cominciare: oggi il modello D’Araprì vive di luce propria anche se i tre soci, quando il tempo glielo permette, continuano a strimpellare.
Un esempio del miracolo D’Araprì in tavola: un tempo sarebbe stato impensabile pasteggiare a tavola con lo spumante. E invece i consumi di bollicine sono aumentati, si è fatta largo tra le papille gustative dei consumatori una nuova consapevolezza: la bevanda con cui si festeggia una ricorrenza, può accompagnare anche il cibo. Altro elemento tangibile del successo di D’Araprì: dal 1979, anno di fondazione, la casa sanseverese ha seguito un suo percorso molto regolare non rincorrendo l’aumento del numero di bottiglie, ma assecondando piuttosto il grado di seduzione che il marchio riusciva nel frattempo a esercitare tra i consumatori. Si è passati così dalle 60mila bottiglie – quota rimasta stabile per lungo tempo – alle 180mila attuali. L’espansione sui mercati, oggi estesa capillarmente in tutte le regioni del Centro-Sud, è penetrata significativamente al Nord grazie a un’intelligente rete di distribuzione. «Abbiamo raggiunto un quadro di riferimento prettamente nazionale», commentano i tre amici-soci nell’intervista che la “Daunia che va” dedica al fenomeno D’Araprì ormai prossimo (2028) al traguardo delle prime 50 candeline.
Ma prima di addentrarci nel mondo D’Araprì, la nostra chiacchierata si è soffermata sul tesoro della cantina di via Zannotti 30, una teoria di gallerie risalenti al 1600 e lungo circa 1000 mq di superficie, lì dove quasi tutto è cominciato (poi scopriremo il perché del “quasi”). Una cantina nobile e antica, ampliata e rinnovata nel tempo dai tre soci, location di alcune session jazzistiche com’è facile intuire, illustrata nella nostra chiacchierata da un Cicerone d’eccezione, Daniele Rapini, architetto 47enne, figlio d’arte di Luis e testimone della nuova stagione di D’Araprì: «E’ in questi luoghi – racconta Daniele Rapini – che il vino diviene spumante: dalla presa di spuma, all’aggiunta nel vino della miscela di lieviti e zucchero il cosiddetto “liqueur de tirage”. Nella seconda fermentazione, i lieviti mangiano gli zuccheri ed è così che si ottiene la magia del metodo classico, processo che avviene quando si disgregano le cellule dei lieviti».
La magia del Metodo classico, il marchio di fabbrica di D’Araprì, è nel metodo di produzione. Ma non solo. Dietro il marchio c’è l’amore e l’impegno in una storia d’impresa partita per caso, ma con importanti condizioni di base a disposizione, utilizzando vitigni autoctoni quali Bombino Bianco, Montepulciano e Uva di Troia, il grande potenziale di un territorio baciato dalla fortuna. Fu un miracolo, per i tempi, produrre spumante. Ma hanno avuto ragione loro: oggi D’Araprì è una realtà da 2 milioni di euro di fatturato, sei dipendenti diretti, 12 stagionali legati al periodo della vendemmia.
Lo spumante metodo classico innanzitutto. Perchè?
Ulrico Priore: «Quando cominciammo nel 1979 era la cosa più semplice da fare e la cosa che ti distingueva da tutti gli altri. Più semplice perchè il metodo classico necessita di poca tecnologia, ma di molta conoscenza. E questo ci consentiva anche con piccole quantità e piccole attrezzature di poterlo fare. E’ stato un percorso cominciato non certo con un business-plan, è stata più un’avventura di tre amici che volevano fare qualcosa sempre con l’intento di provare a dare lustro alla nostra città che già eccelleva sul campo della vinificazione. In virtù di ciò, abbiamo cominciato con cento bottiglie e un percorso molto suggestivo. Ci conoscevamo perchè amanti della musica, il jazz fu il nostro punto d’incontro».
“È stata più un’avventura di tre amici che volevano fare qualcosa sempre con l’intento di provare a dare lustro alla nostra città”
Girolamo D’Amico: «Lo spumante metodo classico rappresentava il top dell’enologia, l’incoscienza giovanile ci ha portato a puntare al massimo che si potesse raggiungere, il metodo classico. Poi c’è stata una concomitanza di eventi: Ulrico che lavorava presso un’altra cantina, quindi la possibilità di poter sperimentare i diversi vitigni; io che sono laureato in chimica e dunque potevo leggere e interpretare alcuni dati; Luis il cui papà viveva in Francia ed era meccanico in una nota azienda di champagne dunque avemmo la possibilità di visitare i luoghi di celebri e più rinomate cantine. Siamo poi sempre andati d’accordo, dalla fine degli anni Ottanta ad oggi siamo riusciti a vinificare il miglior metodo classico d’Italia che anche il mercato ci riconosce».
A cosa attribuite il successo della spumantizzazione del vino nel 1979, passaggio epocale per una vitivinicoltura di grande tradizione qual è quella sanseverese?
Priore: «Varie componenti a mio avviso concorrono. Innanzitutto la nostra unione d’intenti: se avessimo fatto qualunque altro tipo di esperienza, credo che ci saremmo ugualmente riusciti. Il fattore umano è stato fondamentale, il nome coniato è “D’Araprì”, ma avrebbe dovuto essere “D’Arapri-te” perchè il tempo è il nostro quarto socio. Poi c’è la componente storica: il bianco di San Severo è riconosciuto, il terreno si presta molto bene al vitigno Bombino. Con il sapere e la testardaggine siamo riusciti a centrare risultati importanti».
D’Amico: «San Severo è particolarmente vocata per i bianchi e i bianchi la fanno da padrone sugli spumanti. Prima forse nessuno ci aveva pensato, noi non siamo stati geni a pensarci: la casualità, l’essere impavidi in età giovanile, unite alle condizioni di fondo, ci hanno permesso di portare avanti la nostra idea. E così ogni stagione è andata sempre meglio: quest’anno avremo un’annata straordinaria».
Nonostante la siccità? I rubinetti per l’agricoltura sono chiusi dal 13 agosto.
Priore: «Abbiamo una rete infrastrutturale irrigua notevole, detto questo bisogna anche aggiungere che la vite non necessita per fortuna di molti cicli di irrigazione».
D’Amico: «L’irrigazione di soccorso funziona anche per la vite di qualità, il gran caldo dell’ultima estate ci ha portato ad accelerare i tempi della vendemmia».
Sono vostre le bollicine scelte per il palato dei grandi della Terra all’ultimo G7. La componente territoriale ha esercitato un ruolo particolare nella scelta, oppure c’è dell’altro?
D’Amico: «Non ci si improvvisa e comunque il nostro spumante è stabilmente da dieci anni nelle cantine di borgo Egnazia. Siamo presenti nei luoghi più importanti della ristorazione pugliese. Siamo diventati un simbolo di Puglia ed è naturale che poi vengano fuori questi riconoscimenti che ovviamente fa piacere vengano menzionati. Eravamo informati, ma per quanto ci riguarda ce lo siamo detto tra di noi. Lo abbiamo pubblicato sul nostro sito quando è venuta fuori la notizia. Ma se si parla di spumante pugliese D’Araprì è la conseguenza logica».
La cantina di via Zannotti 30, è già un monumento alla storia vinicola sanseverese. In realtà l’idea nasce qualche anno prima e non in via Zannotti.
D’Amico: «Nasce in via Petrarca 17, la cantina dei miei genitori. Ulrico faceva il cantiniere, con il suo carattere frenetico ci portava ogni tanto del mosto da vinificare, diceva che voleva fare lo spumante. Ci provammo a farlo, ma dopo una settimana le bottiglie scoppiarono e il luogo che noi utilizzavamo per studiare divenne inagibile, pericolosissimo per la nostra stessa incolumità. Questo incidente ci ispirò l’idea: volevamo capire il perchè dello scoppio. Nella cantina di mia madre c’era infatti anche una piccola grotta in cui avremmo potuto affinare il prodotto. Questa attività è durata fino agli inizi degli anni ’90. Gli spazi era però sempre più insufficienti, ci decidemmo ad acquistare la cantina di via Zannotti che poi negli anni abbiamo ampliato».
Spumante e solo spumante. E non piuttosto anche vino, su cui San Severo coltiva una lunga tradizione. Avete mai avuto la tentazione di provare a diversificare?
Priore: «Lo spumante comincia dove finisce il vino. E’ stata una scelta si direbbe oggi di marketing, io direi di onestà nei confronti del consumatore. E poi avremmo dovuto aprire un’altra cantina, sarebbe stato inevitabile fondare un altro marchio. Oggi il brand D’Araprì custodisce una sua definizione, probabilmente la nostra è tra le pochissime cantine del Centro-Sud a produrre solo spumante. E questa per noi è stata una scelta azzeccata».
D’Amico: «All’inizio la scelta fu dettata da ragioni logistiche, fare vino nelle ristrettezze di spazio in cui ci siamo trovati sarebbe stato un suicidio. Il vino richiede una preparazione specifica e attrezzature dedicate. A proposito di diversificare la produzione, in effetti stiamo pensando a qualcosa di diverso dal vino, più nelle corde della nostra attuale produzione. Ci piacerebbe aprire una distilleria, siamo già nelle condizioni di poterla realizzare. Ma prima di incamminarci su questo percorso dovremo superare tutta una serie di autorizzazioni. Non lo faremo per il momento».
“Ci piacerebbe aprire una distilleria, siamo già nelle condizioni di poterla realizzare”
Potrebbe essere concepito dai consumatori come un segnale di rinnovamento alla soglia dei cinquant’anni.
Priore: «Noi siamo stati sempre fedeli al nostro marchio e al prodotto, non cambieremo certo ora il nostro modo di intendere la vinificazione. Non abbiamo mai rincorso le mode: ricordate il periodo del vino Novello? Tutti a lanciarsi su quel tipo di mercato. Poi è stata la volta dei vini rosati. Ma fare vino è come fare musica o scrivere un libro: è la testa che lo decide e poi ognuno conserva il proprio stile. Noi siamo questi, è anche la nostra arte per certi versi. Non a caso il nostro slogan è “l’arte e la passione”, la matrice culturale è un elemento importantissimo dietro la nostra storia. Oggi tutti fanno la stessa cosa e così si rischia di banalizzare tutto. Per due anni abbiamo organizzato “Tempus fugit”, ovvero la degustazione di antichi millesimati, con la partecipazione di personaggi illustri, tecnici del settore oltre a un pubblico specializzato. Un evento riuscito, ma non dobbiamo ripeterci».
Quanto può durare una bottiglia di spumante affinché il tempo non ne modifichi il sapore?
Priore: «Anche vent’anni, con le dovute accortezze però. Diciamo che uno spumante di 3-4 anni può essere tranquillamente bevibile. Ma non potrà essere lo stesso per un prodotto più datato».
D’Amico: «Dobbiamo distinguere le due fasi, dalla maturazione alla sboccatura: è qui che nasce lo spumante destinato al libero consumo. Nel momento in cui chiudiamo la bottiglia con il tappo di sughero e il prodotto viene messo in commercio, le variabili di consumo possono essere molto diverse: se lo spumante viene conservato in un luogo asciutto può durare, diversamente in 2-3 anni deve essere consumato».
E lo spumante di 20 anni che sapore ha?
D’Amico: «Un sapore evoluto, di tabacco, frutta matura, fiori secchi. Questo significa che lo spumante di una certa età va abbinato a pietanze adeguate, del tipo: un cefalo arrostito, un caciocavallo stagionato».
Lo spumante da consumare anche a tavola, al posto del vino. Una moda o un’abitudine?
D’Amico: «Lo spumante è un vino passepartout, va benissimo su quasi tutte le pietanze, eccetto le carni rosse al sangue e i sughi elaborati. Ma già su un pomodoro leggero si adatta benissimo. La funzione del vino è quella di ripulire le papille gustative, ce lo insegna il Galateo: il vino non può essere ingerito insieme al boccone, va assunto subito dopo. Lo spumante metodo classico, che non è soltanto anidride carbonica, è un vino che indossa l’abito dello spumante, rendendone più completa la degustazione».
E’ vero che specie agli inizi della vostra attività d’impresa, non eravate interessati a imbottigliare più spumante di quanto effettivamente ne richiedesse il mercato?
Priore: «Siamo cresciuti fisiologicamente partendo dalla quota iniziale di appena cento bottiglie. Con questi presupposti la crescita non poteva che essere graduale e controllata. Ma abbiamo avuto sempre come punto di riferimento le grandi maison francesi, Dom Perignon e Moët & Chandon, ovviamente non come livello di grandezza ma come immagine, punto di vista trattandosi si case produttrici che arrivano fino a 22 milioni di bottiglie. Seguendo un riferimento così prestigioso abbiamo ampliato la cantina, così come le nostre superfici vinicole: oggi produciamo uva su circa 20 ettari. Ai nostri inizi avemmo l’opportunità di conoscere e di farci conoscere da persone importanti per la nostra crescita che gravitavano intorno al mondo dell’impresa. Io lavoravo in una cantina importante, la D’Alfonso Del Sordo, il compianto proprietario Antonio (morì nel 1993 in un incidente aereo: ndr) fu importante per la mia formazione. Il presidente all’epoca della Camera di commercio, Alberto Cicolella, credette molto in noi. Lo stesso dicasi per il segretario generale dell’ente Fiera, Antonio Vitulli, di Benito Mundi, molto noto a San Severo, e dell’ex sindaco Giuliani. In tanti hanno creduto in noi, noi non li abbiamo delusi».
D’Amico: «Ora siamo nel mezzo di una fase di stasi, ma dobbiamo crescere ancora. Sarà la palla che passeremo a chi verrà dopo di noi, i nostri figli. Noi oggi stiamo consolidando ciò che è avvenuto in questi anni».
“Abbiamo avuto sempre come punto di riferimento le grandi maison francesi, Dom Perignon e Moët & Chandon”
Il futuro di D’Araprì a quali nomi corrisponde?
Priore: «A mio figlio Antonio Priore, ad Anna D’Amico figlia di Girolamo ed a Daniele Rapini figlio di Luis. Sono già all’interno della compagine societaria, saranno ancora per un po’ coadiuvati dalla nostra presenza e formazione».
D’Amico: «Ritengo sia questa una fortuna per loro potersi formare sulla base dell’esperienza trasmessa dai loro stessi genitori. Il mondo cambia, il nostro brackground è nelle loro mani».
Ma lo spumante che tipo di prodotto è? Si può commercialmente evolvere, come avvenuto ad esempio per la pasta oggi proposta in mille varianti di semola e grani?
Priore: «Lo spumante nell’immaginario collettivo è il vino della festa. Questa sua iconografia originaria sarà dura a morire. Ma oggi viene impiegato molto anche nei pasti ed è questa già una trasformazione significativa. Se il consumo fosse rimasto confinato a feste e cerimonie non avremmo avuto questi risultati».
D’Amico: «Lo champagne nasce nel Settecento, i vini cambiano come cambia il mondo. Lo stesso avviene per i gusti. Il D’Araprì forse fra cinquant’anni non avrà lo stesso gusto, lo champagne del ‘700 non ha lo stesso sapore di oggi. L’importante è saper interagire con l’attualità della vita e saper stare al passo con i tempi. La tecnica di lavorazione dei vini è cambiata radicalmente, se i tempi cambiano noi dovremo essere i custodi del “non cambiamento” pur consapevoli di un mondo che cambia. Un po’ come avviene per il pianoforte: oggi lo suona Bollani con tutte le sue armonie, ma resta uno strumento classico».
D’accordo, ma in un mercato che cambia e riconosce comunque i propri capisaldi, è giusto considerare D’Araprì una piccola casa di produzione?
Priore: «Rispetto ai grandi francesi e ai produttori italiani di punta certamente sì. L’azienda trentina Ferrari produce 7 milioni di bottiglie, il confronto sarebbe improponibile sulla scorta delle nostre pur ragguardevoli 180mila bottiglie. Ma se la differenza sul piano numerico c’è tutta, noi facciamo attenzione più che altro a non mantenere troppa distanza tra noi e loro rispetto ai modelli di riferimento».
D’Amico: «Attenzione però, perchè siamo diventati grandi anche noi. Intendiamoci: restiamo un’azienda medio-piccola. Ma se a livello di produzione di spumante italiano siamo oggettivamente piccoli, nel Centro-Sud la nostra azienda di spumanti è forse la più grande».
Quali i vostri competitor più diretti?
«Sono diverse le aziende meridionali che fanno vino e spumante, forse però l’unica che può avvicinarsi alla nostra in termini quantitativi si trova in Sicilia, produce 70-80mila bottiglie di spumante ma non si limita a questo avendo nel proprio catalogo anche vino».
Ma se non vi sono programmi in espansione nell’immediato è forse perchè ritenete il vostro mercato saturo o prossimo a diventarlo?
D’Amico: «Non si amplifica il mercato se prima non si aggregano intorno al prodotto altre quote di consumatori. E’ la regola che ci ha guidato in questi anni. Spumanti della nostra stessa qualità ce ne sono diversi in circolazione, finora la nostra politica aziendale è stata sempre orientata alla gradualità di una crescita costante nel tempo. L’errore di molte cantine è stato proprio questo, nascere grandi e poi veder affievolire la loro forza. Noi adesso stiamo consolidando la nostra esperienza, cercando di avvicinare nuove quote di consumatori. Non è facile».
Priori: «Berlucchi, Ferrari sono marche di riferimento riconosciute. Anche D’Araprì lo è sul piano commerciale, ma per allargare la piattaforma di riferimento ci vuole più tempo e non bisogna porsi scadenze come abbiamo fatto in questi anni».
Il passaggio ad un aumento esponenziale della domanda potrebbe poggiare ad esempio sul nascente distretto dello spumante foggiano, capofila ovviamente D’Araprì con la designazione del presidente Girolamo D’Amico. Se ne parla da tempo. A che punto siete?
Priore: «Ne parliamo con gli altri colleghi vitivinicoltori da almeno 7-8 anni, ma va detto che purtroppo ci troviamo in un territorio ostico e poco interessato alle novità. Non dico che la cosa non si possa fare, ma occorre più tempo».
D’Amico: «Entro 3-4 mesi l’associazione tra le cantine vinicole che producono spumante nel comprensorio di San Severo dovrebbe essere costituita. L’associazione si chiamerà “Capitanata metodo classico”, siamo partiti in sette tenendo fuori qualcuno, ma non si vuole escludere nessuno. Vogliamo solo partire da una base più ristretta per poi ampliare la partecipazione, l’obiettivo che ci siamo dati per partire senza più tentennamenti: troppi galli nel pollaio non servono, vogliamo che faccia giorno».
“Nel Centro-Sud la nostra azienda di spumanti è forse la più grande”
Sull’etichetta D’Araprì, così come sulle etichette degli altri produttori di spumante, comparirà anche il logo dell’associazione?
D’Amico: «Certamente sì, il marchio sarà unico per tutte le case vinicole, dobbiamo fare sistema a cominciare dalla nostra riconoscibilità sul mercato. A tal proposito, mi piacerebbe promuovere un concorso di idee con l’istituto d’arte di San Severo per un logo di facile richiamo».
Il passaggio dall’associazione al distretto dello spumante sarà una conseguenza?
D’Amico: «Purtroppo sul piano burocratico ci separa un muro dall’una all’altra entità. E per un motivo molto semplice: è la Doc (denominazione di origine controllata: ndr) che fa nascere il distretto, dunque l’associazione da noi promossa dovrebbe a sua volta confluire nella Doc. Ma una “Doc San Severo” sulle etichette dei vini di produzione locale esiste dagli anni Sessanta, per questo motivo abbiamo puntato sul marchio “Capitanata”: se vogliamo fare un prodotto differente, non può essere utilizzata nemmeno una parola contenuta nel marchio depositato della Doc. Per questa ragione fummo multati qualche anno fa, scrivemmo in etichetta la parola “San Severo” troppo ravvicinata alla mostra etichetta. Riportammo così il nome della città di origine al di sotto del margine di 2 millimetri, come vuole legge, in modo che non si facciano confusioni tra il nostro marchio e la Doc “San Severo”. Sono norme importanti, il livello di contraffazione dei marchi ha raggiunto vette altissime e molti giocano su questi stratagemmi. Confesso tuttavia che sarebbe stato più bello vedersi riconoscere il proprio prodotto sotto il marchio “Daunia”, nome storico delle nostre origini, in luogo di “Capitanata” che risale all’epoca borbonica».
Priore: «In realtà la Doc San Severo per i vini presuppone che possano rientrare sotto la stessa denominazione anche gli spumanti. Vedremo».
Con una promozione più mirata il marchio D’Araprì avrebbe più forza commerciale per essere riconoscibile alla stregua dei più grandi marchi italiani?
D’Amico: «Gli investimenti in promozione commerciale possono trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Abbiamo ben presenti sul territorio esempi di aziende che hanno investito fino a 20 milioni di euro sul marketing e sono ugualmente fallite. La diffusione di un marchio vinicolo non dipende da quanto si investe sul mercato e di claim pensati a tavolino. Il vino e lo spumante, aggiungerei, è seduzione. Va fatto affezionare il consumatore perchè parliamo di un prodotto di largo consumo che sfugge a parecchie logiche».
Il successo di D’Araprì dipende anche dal nome: stringato e immediato, facile da ricordare. Una delle regole del marketing.
D’Amico: «Un marchio facile e immediato al tempo stesso, anche se non sempre è stato così: sapeste quante volte è stato storpiato. Però il nome ha certamente funzionato. Un altro elemento di cui tener conto è l’etichetta che ci rende riconoscibili all’istante, non avendola mai cambiata. Un conto è essere Antinori, marchio riconosciuto che può permettersi a mio avviso qualsiasi tipo di evoluzione di mercato. Ma non ci si improvvisa».
Il vostro è un mercato regionale o nazionale?
Priore: «Direi nazionale. La nostra responsabile commerciale più importante ha sede a Trento, ovvero nella tana del lupo: la “patria” dello spumante Ferrari. E’ il nostro distributore per il Nord».
D’Amico: «E’ cambiato il modo d’acquisto, la maggior parte dei nostri clienti è nella ristorazione e nelle gastronomie di lusso. Che non fanno però più magazzino. Oggi gli agenti hanno un catalogo di 400-500 prodotti, le bottiglie si distribuiscono a livello di poche unità. La nostra rete commerciale di cinque agenti distribuisce il nostro spumante nelle regioni del Centro-Sud, abbiamo clienti anche in Europa e in California».
Una bottiglia base di D’Araprì quanto costa?
«Siamo sui venti euro, più o meno il prezzo che praticano gli altri nostri competitor. Poi saliamo sui prodotti più di nicchia fino ai 40 euro».
La guerra del Prosecco però continua.
D’Amico: «Produciamo in Italia più o meno lo stesso numero di bottiglie della Francia, circa 1 miliardo di pezzi. Ma il valore che se ne ricava è di gran lunga inferiore rispetto ai nostri cugini transalpini: noi in Italia produciamo soprattutto Prosecco, che costa un decimo di una bottiglia di spumante, per il 90% dell’intera produzione vitivinicola. Su 950 milioni di bottiglie, appena 32 milioni sono di metodo classico. Il Prosecco fa volume, ma all’estero le bollicine italiane vengono considerate solo per il vantaggio economico: bottiglie che fanno risparmiare».
In questo contesto, in un mercato dominato dal basso costo, è ancor più importante la crescita da 60mila a 180mila bottiglie in poco meno di quindici anni di D’Araprì.
Priore: «C’è da dire anche che la clientela non è più la stessa di un tempo, aumenta l’incidenza dei discount nei bilanci delle famiglie ed a spendere oltre una certa soglia sono sempre meno. La nostra crescita tiene conto anche di questo, ma non possiamo lamentarci».
C’è stata di converso anche l’esplosione dei prodotti di lusso, la forbice del benessere si è allargata.
Priore: «Abbiamo sempre pescato i nostri clienti tra una griglia di consumatori, mai danarosa ma indubbiamente competente ed educata a bere in un certo modo. Lo dobbiamo anche ai sommelier che in questi anni sono stati bravi a promuovere una certa idea di mercato, facendo cultura del vino: la promozione del nostro spumante è stata la naturale conseguenza. Il nostro equilibrio d’azienda ha fatto il resto: una linea da cui sarà difficile potersi discostare».