La Cassazione ha messo la parola fine al processo per l’agguato mafioso nel bar H24 di via San Severo a Foggia. 20 anni di carcere a testa ai mandanti, i cugini Francesco e Cosimo Damiano Sinesi, figlio e nipote del boss Roberto. 30 anni al killer Patrizio Villani, un noto sicario di San Marco in Lamis al servizio della mafia foggiana. Un altro assassino non è mai stato individuato. Il fatto di sangue risale al 29 ottobre 2016 quando Villani e un’altra persona, su mandato dei Sinesi, fecero irruzione nel bar uccidendo il 21enne Roberto Tizzano e ferendo il coetaneo Roberto Bruno. Il 40enne Giuseppe Albanese alias “Prnion”, principale obiettivo dell’agguato, restò illeso.
In nostro possesso le motivazioni della sentenza della Cassazione, presidente Renato Giuseppe Bricchetti, che ha confermato in toto le condanne in appello, rigettando i ricorsi del collegio difensivo. Nelle carte, la Corte suprema ricostruisce l’odio tra le batteria Sinesi-Francavilla e Moretti-Pellegrino-Lanza, ciclicamente in guerra per il controllo degli affari illeciti a Foggia.
“L’azione di fuoco fu condotta da almeno due soggetti – si legge in sentenza – che agirono con il volto travisato e che giunsero presso il bar a bordo di una autovettura Lancia Delta. Gli esecutori materiali inseguirono le vittime all’interno del locale, sparando al loro indirizzo, quindi fuggirono a bordo della stessa autovettura, oggetto di furto consumato circa un mese prima, che fu poi rinvenuta, ormai incendiata, nella serata dello stesso giorno in località Ingarano in agro di Apricena”. A parere degli inquirenti, “con ogni probabilità, le vittime designate erano più di due; tra queste vi era anche Giuseppe Albanese che riuscì a fuggire prima trovando riparo dietro il bancone poi scappando da una uscita secondaria”. Su Albanese i giudici scrivono: “fuggito all’agguato e vero obiettivo dello stesso”. Le indagini portarono a ricollegare i due fatti di sangue alla “guerra tra cosche mafiose che si stava consumando in quel periodo tra il clan Sinesi-Francavilla e il clan Moretti-Pellegrino-Lanza. La causale dell’omicidio è stata individuata nella risposta del clan Sinesi-Francavilla all’attentato alla vita subìto da Roberto Sinesi il 6 settembre 2016, mentre si trovava in compagnia del nipotino, rimasto ferito, dell’età di soli quattro anni”.
“Numerose captazioni ambientali di altri procedimenti penali, riversate nel presente procedimento, hanno attestato l’esistenza del risentimento e della rabbia nutrita dagli esponenti del clan Sinesi-Francavilla. L’intercettazione del 28 settembre 2016 della conversazione tra Emiliano Francavilla ed Elisabetta Sinesi (cognati tra di loro, ndr) ne è sicura attestazione, al pari di quella da cui è emerso il risentimento di Francesco Sinesi, figlio di Roberto Sinesi, e la consapevolezza del coinvolgimento in tale agguato degli esponenti del clan Moretti-Pellegrino-Lanza. Da altra conversazione, tra esponenti del gruppo contrapposto (Rodolfo Bruno e i suoi familiari), si è appreso che Francesco Sinesi si era recato a casa di Leonarda Francavilla, sorella di Emiliano e Antonello, con l’intento di istigare i familiari di Leonarda riferendo che Rodolfo Bruno aveva manifestato i suoi propositi ritorsivi per l’azione di fuoco posta in essere in data 29 ottobre 2016″.
C’è poi il ruolo dei pentiti, cruciale in questo processo: “La responsabilità degli imputati è, a giudizio della Corte di assise di appello, provata al di là di ogni ragionevole dubbio sulla base del compendio probatorio raccolto in primo grado, ulteriormente arricchito e corroborato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pasquale Pignataro e Carlo Verderosa in sede di rinnovazione istruttoria. Il primo ha riferito di aver appreso da Alessandro Moretti, nipote di Rocco Moretti, che Villani era stato esecutore materiale dell’agguato; il secondo ha riferito di aver appreso da Francesco Sinesi e Giuseppe Albanese che responsabili dell’agguato erano Villani, esecutore materiale, e i cugini Sinesi, che avevano fatto da vedetta al di fuori del bar, al fine di coadiuvare l’azione di identificazione delle vittime da colpire”.
“Per quanto attiene alla posizione di Cosimo Damiano Sinesi, il coinvolgimento nei fatti di imputazione è desunto da altre conversazioni intercettate, intercorse tra le sorelle della vittima, Roberto Tizzano, che dissero che ‘u’ ciunnill’, così soprannominato Cosimo Damiano, era fuori del bar H24 unitamente al cugino Francesco. Allo stesso modo, in altra conversazione intercettata, intercorsa tra i familiari della vittima Roberto Bruno, si fece riferimento a ‘u’ciunnill’, quindi a Cosimo Damiano Sinesi, come responsabile dei fatti di sangue. Altri elementi di conferma sono tratti da altro materiale di intercettazione”.
Il summit e le frasi di Villani
“Grazie alle immagini del sistema di videoripresa installato nei pressi dell’abitazione di Francesco Sinesi si è accertato che la mattina del duplice fatto di sangue si tenne lì un summit mafioso – ricorda la sentenza -, finalizzato a elaborare e definire i dettagli dell’azione omicida. Alla riunione presero parte, oltre a Francesco Sinesi, il cugino Cosimo Damiano Sinesi, i pregiudicati Gaetano Piserchia e Sergio Ragno, a cui si aggiunse Patrizio Villani. È stato poi accertato, sempre sulla base delle immagini di videoripresa e della ricostruzione effettuata dalla polizia giudiziaria in relazione ai tempi di percorrenza, che i cugini Sinesi e Patrizio Villani si recarono al bar H24 proprio all’orario in cui furono commessi i fatti, avendo comunque modo Villani, esecutore materiale dell’azione di fuoco, di cambiarsi d’abito per indossare un abito nero e un passamontagna prima di entrare in azione”.
Nel corso dell’inchiesta, Villani si è anche tradito: “colloquiando con un immaginario interlocutore, disse di detenere un fucile e una pistola e di averli usati contro due persone, aggiungendo ‘tu me lo hai fatto uccidere’ e così accreditando l’impostazione accusatoria del mandato omicida ricevuto dai cugini Sinesi. Nel corso di altra conversazione, sempre oggetto di intercettazione, disse testualmente: ‘io non sono del Gargano, io sono della famiglia Sinesi’, attestando la vicinanza al sodalizio criminoso”.
Nel motivare il rigetto del ricorso per Francesco Sinesi, principale imputato di questo processo, la Cassazione scrive: “In merito all’aggravante del metodo mafioso e dell’agevolazione mafiosa la Corte di assise di appello ha adeguatamente argomentato osservando che i fatti furono commessi con platealità, per incutere timore e mantenere sul territorio lo stato di assoggettamento e di omertà, e che furono compiuti per affermare e ribadire il predominio del clan di appartenenza, sì da agevolarne le attività criminose”.
Francesco Sinesi, 37 anni, in questo processo era difeso dal noto avvocato Giancarlo Chiariello, recentemente condannato in primo grado ad oltre 9 anni per corruzione in atti giudiziari. Sinesi è attualmente rinchiuso nel carcere di Terni in regime di 41 bis.