“I clan contavano sul patto corruttivo fra il giudice Giuseppe De Benedictis e l’avvocato Giancarlo Chiariello“: è uno dei passaggi della requisitoria – riportato da Repubblica Bari – con cui i pm leccesi Roberta Licci e Alessandro Prontera hanno chiesto la condanna del magistrato, del penalista e di altre cinque persone per corruzione in atti giudiziari aggravata dall’aver agevolato l’attività mafiosa. A fine marzo ultime arringhe, poi la sentenza. Per De Benedictis è stata chiesta la condanna a otto anni e nove mesi, mentre per il legale Chiariello otto anni e cinque mesi. L’assoluzione è stata chiesta soltanto per l’avvocato foggiano Michele Pio Gianquitto. Quattro anni sono stati invece sollecitati per il figlio dell’avvocato Chiariello, Alberto (penalista anche lui) e per la collaboratrice di studio Marianna Casadibari. Tre anni e otto mesi per il foggiano Antonio Ippedico e per il pentito di Vieste, Danilo Della Malva alias “U’ Meticcio”. Stessa pena invocata anche per Roberto Dello Russo. Stando all’impianto accusatorio, i tre sarebbero stati favoriti da De Benedictis con provvedimenti di scarcerazione.
Stando alle carte degli inquirenti riportate da Repubblica, ci sarebbe stata “una motivazione economica sicuramente forte per il gip”, con la “volontà di accreditamento del proprio ruolo davanti ai clan da parte dell’avvocato, per aumentare i propri introiti economici”. Nelle scorse ore Chiariello è stato raggiunto da un provvedimento di sequestro di 10 milioni di euro per presunti reati fiscali. L’avvocato avrebbe percepito compensi milionari in nero omettendo di versare Iva per 4,2 milioni e Irpef per 6,6 in sei anni.
Secondo quanto riferito dal pentito barese Domenico Milella, Chiariello “garantiva il risultato”, per questo motivo i boss erano disposti a versare laute parcelle pur di ottenere scarcerazioni anche se in fase cautelare: “La cosa principale per noi è avere gli arresti domiciliari”. Secondo la Procura di Lecce per i mafiosi è fondamentale “essere restituiti al territorio di appartenenza”. Ecco perché i pm insistono nella contestazione dell’aggravante. “L’agevolazione non può essere intesa come mero favoreggiamento – ha spiegato la pm Licci – ma come capacità di apportare un vantaggio umano e sostanziale all’associazione”. Cosa che si sarebbe verificata nel caso di specie, quando grazie ai provvedimenti dell’allora gip De Benedictis sono tornati a casa Danilo Della Malva, tra gli uomini di vertice del clan Raduano di Vieste; Roberto Dello Russo, definito “fonte principale di approvvigionamento di stupefacente di molti gruppi”; Antonio Ippedico, ritenuto “anello di congiunzione con i colletti bianchi” e Gianquitto, “che dà copertura all’attività economico-imprenditoriale”. Questi ultimi due, entrambi foggiani, vennero arrestati nella maxi operazione antimafia “Grande Carro” che sgominò il clan Delli Carri, costola della batteria Sinesi-Francavilla. (In alto, De Benedictis; nei riquadri, Chiariello e Della Malva)