A l’Immediato il grido di dolore del figlio di un pentito della mafia foggiana che si sente abbandonato dallo Stato. “Sono il figlio di un noto collaboratore di giustizia – spiega il giovane alla nostra testata -. Mio padre ci ha portati via da Foggia quando eravamo bambini, io avevo 8 anni. Ora ne ho 25. Grazie alla sua scelta, oggi vivo una vita tranquilla, ma il timore di una vendetta c’è sempre. Leggendo le cronache di Foggia, apprendo che ragazzi della mia età vivono allo sbando, alcuni arruolati nella criminalità organizzata locale. Fossi rimasto in città, anche io sarei incappato nelle mani della mafia”.
Poi si rivolge a Maurizio Vallone, capo della Dia, ospite a Foggia pochi giorni fa: “Ha detto alla comunità che bisogna reagire e non convivere con la criminalità organizzata. Voglio dire a lui, alla ministra Lamorgese e al viceministro che gestisce il ‘Servizio centrale di protezione’ che siamo stati trattati con disparità rispetto ad altri collaboratori. Ci hanno messo fuori casa nel giro di 15 giorni”. Il riferimento è al trasferimento a carico del pentito e della sua famiglia, costretti a traslocare alcune settimane fa.
“Dal 31 gennaio ci hanno messo fuori casa. Mio padre ha dovuto affittare una nuova abitazione grazie ad una persona di cuore che ci ha accolto”. Ma non è tutto: “Mio padre dovrebbe restituire una somma pari a 30mila euro perché, secondo il ‘Servizio centrale di protezione’, ci sarebbero stati errori nei calcoli sui sussidi mensili. Ma non è mio padre ad aver causato l’eventuale ingiusto profitto. Fatto sta che lui aveva messo da parte dei soldi per un progetto di vita, per comprare una casa tutta nostra, ed ora questo ci viene negato con una decisione assurda”.
Nonostante questo, il giovane spiega: “Resto felice della scelta di mio padre, soprattutto per le persone oneste di Foggia che spesso subiscono angherie. Dove vivo oggi queste cose non esistono. Invece Foggia è spesso alla ribalta nazionale per fatti negativi”. E ancora: “Mio padre ha sempre condotto una regolare collaborazione. Non si è mai tirato indietro in alcun processo e quando ha iniziato la collaborazione, il ‘Servizio centrale di protezione’ stipulò accordi scritti, ma oggi ci troviamo con una legge nuova che dice che se il pentito e i figli lavorano non hanno più diritto a sostegni statali, ovvero somme utili ad un reinserimento sociale”.
“Come può lo Stato chiedere ai cittadini foggiani di collaborare se poi non è in grado di gestire un pentito che con le sue collaborazioni ha dato input ad indagini e arresti, svelando la verità su rapine, omicidi ed estorsioni? Spero un giorno di poter smentire quanto affermato oggi su l’Immediato. Mi auguro di ottenere presto risposte. Mio padre ha commesso reati gravi, però noi non possiamo ancora pagare le colpe dei nostri genitori che nel frattempo si sono reinseriti e lavorano onestamente. Mio padre ha dato un avvenire a me e mia sorella. Oggi siamo liberi cittadini lavoratori. Ma per una decisione del ‘Servizio centrale’ è stato infranto un sogno che rincorrevamo da 16 anni, comprare una casa che oggi ci sembra impossibile. Mio padre non ha più l’età per ottenere un mutuo abbastanza lungo ed io e mia sorella dovremmo aiutare i nostri genitori rinviando, così, i nostri progetti di vita che tanto sognavamo. Con che coraggio – conclude – si invita a combattere la mafia se poi non si rispettano i patti con chi collabora e aiuta la giustizia?”.