“Affidamento della fornitura di derrate alimentari, ortaggi, frutta fresca e materiale vario presso l’asilo nido comunale ‘Tommy Onofri’, in favore della ditta Carni & Affini Srl. Autorizzazione di spesa di euro 12mila”. Lo riporta una determinazione dirigenziale di pochi giorni fa firmata dalla dirigente Silvana Salvemini. Un provvedimento che fa sorgere alcune perplessità vista la presenza dell’azienda in due recenti inchieste contro la criminalità organizzata foggiana. Decisione che sorprende, soprattutto in un Comune sciolto per mafia, e che potrebbe scatenare nuove polemiche dopo i recenti attacchi alla Commissione straordinaria.
Ma veniamo alle indagini di procura antimafia e forze dell’ordine che citano i titolari di “Carni e Affini”. Mentre altre vittime ebbero il coraggio di denunciare, i proprietari della nota catena di supermercati avrebbero preferito sottostare alle richieste di boss e picciotti. In un decreto di fermo a carico del boss Federico Trisciuoglio, 68 anni detto “Enrichetto lo Zoppo” o “Polpetta” e di altre tre persone, gli inquirenti parlarono di “estorsione aggravata ai danni del titolare della catena di supermercati ‘Carni e Affini’ costretto a versare una somma imprecisata di denaro“. Trisciuoglio indicato come “mandante” e Aldo Checchia “esecutore materiale”, il quale “si occupava – riportano le carte – di avvicinare la vittima, organizzare il successivo incontro della stessa con un intermediario, che poi provvedeva a consegnare la somma estorta, direttamente al Trisciuoglio, che assisteva all’operazione dal balcone della sua abitazione”.
A parere degli inquirenti, “è emerso in, maniera inequivocabile, che il gruppo Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese, attualmente in auge in virtù della detenzione dei vertici delle altre batterie mafiose operanti in questo centro cittadino, gestisce pienamente le attività estorsive nei confronti di svariati imprenditori locali. Tra gli imprenditori estorti emerge chiaramente la figura dei proprietari della catena di supermercati ‘Carni e Affini’. Al riguardo, giova premettere che l’amministratrice delegata della società figurava come vittima di estorsione da parte dell’organizzazione criminale ‘Società foggiana’ già nell’attività di indagine della DDA di Bari sfociata successivamente nell’operazione ‘Decima Azione'”.
Il racket in “Decima Azione”
In “Decima Azione”, maxi blitz di novembre 2018, venne ricostruita “l’attività estorsiva grazie alle captazioni ambientali che avevano permesso di accertare che la catena di negozi alimentari in argomento versava 8.000 euro l’anno, suddivisa in 4mila euro a Natale e 4mila euro a Pasqua. All’epoca dei fatti – è scritto ancora nelle carte giudiziarie – gli aguzzini, appartenenti alle batterie Sinesi-Francavilla e Moretti-Pellegrino-Lanza, erano i pregiudicati Giuseppe Spiritoso, Francesco Tizzano e Alessandro Aprile con il coinvolgimento di altri, i quali durante le loro conversazioni intercettate, facevano espliciti riferimenti alla sottomissione al sistema delle estorsioni della catena foggiana di supermercati. Durante le svariate captazioni ambientali emerse chiaramente che uno dei destinatari della somma estorta era Ciro Francavilla, con il benestare del defunto Rodolfo Bruno, che aveva incaricato Francesco Tizzano di ripartire i proventi illeciti secondo i nuovi criteri stabiliti”.
Nelle carte, numerose intercettazioni, anche tra mafiosi e imprenditori. Stando alle parole degli inquirenti, i vertici della ditta delle carni avrebbero mostrato un certo risentimento per il fatto che gli investigatori erano a conoscenza del particolare che la pratica estorsiva, a cui erano sottoposti, prevedeva il pagamento del ‘pizzo’ in due tranche da 4mila euro da versare a Natale e Pasqua. Dal contenuto della conversazione captata emergeva che l’amministratrice si era lamentata con Spiritoso dicendogli testualmente: ‘Come fanno a sapere che pago quattro a Pasqua e quattro a Natale?’. A tale interrogativo, che alle orecchie di Spiritoso suonava come un fragoroso rimprovero, quest’ultimo si era giustificato declinando le proprie responsabilità, rispondendo: ‘Che ne so… ho detto io… qualche balengo… nelle macchine parla… che ne so'”.
Nella sentenza di Decima Azione, firmata dal giudice Giovanni Anglana, si parla del “paradosso della vittima dell’estorsione che rimproverava i suoi taglieggiatori di essere stati incauti al punto di far scoprire alla P.G. le precise modalità dell’attività estorsiva cui era sottoposta… Ed è veramente desolante – si legge ancora – il quadro offerto dalle vittime delle estorsioni, constatare il loro supino asservimento ai parassiti che li sfruttano e, per converso, l’ottuso rifiuto di qualsivoglia forma di collaborazione con lo Stato”.
Il pizzo nelle carte del fermo di Trisciuoglio
Secondo gli inquirenti, “la pratica estorsiva ai danni dell’impresa è attualmente curata dalla batteria Trisciuoglio nel segno della stabilità criminale mafiosa. Infatti, cambiano gli attori ma l’attività estorsiva nei confronti di ‘Carni e Affini’ prosegue. A riprova di ciò si evidenziano alcune conversazioni captate nel presente procedimento penale (fermo Trisciuoglio e altri tre, ndr) che vede come autori materiali una serie di soggetti, riconducibili tutti a Trisciuoglio e alla batteria di cui egli è il capo indiscusso. Le attività tecniche attivate nel presente procedimento penale hanno evidenziato che il sodalizio mafioso, facente capo al boss, aveva difficoltà ad instaurare un rapporto diretto con la vittima, per cui si era rivolto al pregiudicato G.D.T., individuato quale ‘gancio’ per arrivare al titolare dell’attività. Giova evidenziare che l’uomo presumibilmente non è nuovo a questo tipo di incarico, anche in virtù del suo passato di macellaio, per cui ben conosce direttamente i proprietari di ‘Carni e Affini’, noti a Foggia come imprenditori nel settore alimentare, macellai e titolari di macelli di carne da molteplici anni”.
Per chi indaga “appare evidente che il titolare della nota catena, messo in guardia da Checchia circa un controllo di Polizia precedentemente subito, aveva assolto all’incombenza del pagamento in favore del clan per il tramite di G.D.T. proprio innanzi all’autosalone (riconducibile al boss, in via De Amicis), ricorrendo ad un linguaggio volutamente criptico ed allusivo nelle telefonate. Ebbene, al fine di raccoglierne la denuncia, il titolare dell’impresa veniva invitato presso gli uffici della Squadra Mobile, ove, nell’attesa di essere escusso, veniva intercettato unitamente a M.C. (proprietario di altra catena di negozi bersaglio della mafia), anche questi invitato con la medesima finalità”.
“Come si evince dalla lettura del verbale, il titolare di ‘Carni e Affini’ negava di aver mai ricevuto richieste estorsive e riferiva di conoscere Checchia solo perché questi voleva un lavoro da lui, mentre riferiva di conoscere Trisciuoglio perché voleva acquistare una macchina da quest’ultimo. Tuttavia l’intercettazione ambientale effettuata nella sala di attesa testimoniava ben altro”.
“Si, ma se lo sapete io che vi devo dire?” E ancora: “Scusa, non ho capito, se già sapete tutto, perché… lo devo dichiarare io? Io da essere la vittima, voi mi state intimorendo comecchè”. In conclusione, gli inquirenti scrivono che il titolare della ditta di carni “durante l’escussione in Questura si dimostrava particolarmente reticente e benché per la seconda volta il suo nucleo familiare veniva accusato di pagare l’estorsione alla ‘Società foggiana’ preferiva essere reticente e non rivelare nulla“. Inoltre, “chiedeva di essere raggiunto negli uffici della Questura dal cognato al quale, una volta in ufficio, riferiva che gli investigatori sapevano tutto e potevano benissimo arrestare gli autori del reato visto che avevano sentito e visto tutto”. A parere degli inquirenti, “queste frasi testimoniavano che anche il titolare della ditta aveva palesemente mentito agli investigatori, favorendo ancora una volta i propri aguzzini, come già fatto dalla moglie e documentato nell’ambito del procedimento penale che ha dato vita all’operazione di Polizia convenzionalmente denominata ‘Decima Azione'”.