Vive nel terrore, con il giubbotto antiproiettile e il timore che qualcuno possa ucciderlo. È la vita impossibile del 51enne foggiano, Michele Ciuffreda e della sua famiglia. L’uomo ha denunciato la malavita e ora deve guardarsi intorno mentre gira per la città o va a lavorare nella sua lavanderia di via Tugini. Investigatore privato per conto della ‘Ares Investigazioni Private’, Ciuffreda si occupava di stanare i falsi sinistri stradali; un lavoro necessario per arrotondare i guadagni da lavandaio e consentire ai figli di frequentare l’università. Ma il 51enne si è ben presto ritrovato in un vortice senza via d’uscita, al cospetto di malavitosi e insospettabili rappresentanti dello Stato.
“Trovavo continue discrasie nei sinistri stradali in questione. Alcuni incidenti non si erano mai verificati”. Grazie alla sua solerzia, molte truffe sarebbero state sventate. Ciuffreda avrebbe scoperto un vero e proprio gruppo criminale, costola della batteria Trisciuoglio della “Società Foggiana” che avrebbe messo in piedi, da anni, un sistema collaudato di raggiri. “Io non mi sono piegato al loro gioco e oggi ne pago le conseguenze”. Il calvario di Ciuffreda cominciò nel 2014: “Mi dissero che dovevo starmene buono, conoscevano le scuole frequentate dai miei figli“. Poi passarono alle vie di fatto: “La notte di San Valentino del 2015 incendiarono l’ingresso della lavanderia. Nel 2017 mi venne recapitato un pacco bomba a casa. Un ordigno potente con tre candelotti di tritolo collegati ad una tanica di benzina. Un’altra volta venni aggredito alle spalle mentre aprivo la porta del cancello. Fui colpito alla testa”. Incendiarono anche una Fiat 500L davanti alla sua attività ma i malviventi sbagliarono auto distruggendo quella di una povera signora.

Al termine di un’operazione condotta da Procura di Foggia e Guardia di Finanza, si giunse al rinvio a giudizio di tre persone denunciate da Ciuffreda: “Ringrazio molto i finanzieri che hanno creduto in me”, dice a l’Immediato. Nei giorni scorsi è iniziato il processo nei confronti di tre uomini, uno dei quali già in cella per l’operazione antimafia “Decimabis”. A piede libero gli altri due. Uno è indagato perché avrebbe minacciato Ciuffreda “di scatenare – si legge nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (pm Francesca Romana Pirrelli) ‘una guerra vera e propria nei suoi confronti’ e che ‘non ci sarebbe stata più tregua’, riferendo altresì, con fare intimidatorio di conoscere tutti i componenti della famiglia Ciuffreda, le autovetture in loro possesso, le loro abitudini e che ‘se le cose si fossero messe male, qualcosa sarebbe saltato in aria’“. Stando all’accusa, l’indagato avrebbe compiuto “atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere il Ciuffreda ad essere più malleabile (anche eventualmente proponendo in cambio compensi in denaro) negli accertamenti relativi ai sinistri ai quali avrebbe anche dovuto permettere all’imputato di partecipare nella qualità di consulente infortunistico, non riuscendo nell’intento per l’opposizione e la denuncia da parte della vittima“.
Riguardo agli altri due si apprende che sono “indagati perché in concorso tra loro, mediante minaccia a Ciuffreda Michele di danni alla propria incolumità e a quella dei suoi familiari, compivano atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere il Ciuffreda ad essere ‘più accomodante’ nelle indagini relative ai sinistri rispetto ai quali loro in qualità di ‘procacciatori d’affari’ prestavano la loro attività di intermediazione; non riuscendo nell’intento per l’opposizione e successiva denuncia della vittima”. Ma c’è altro a preoccupare Michele Ciuffreda: “Non è solo il malvivente in sé e per sé che mi preoccupa, ma chi sta dietro che potrebbe proteggerli”. Il riferimento è anche ad un procedimento penale parallelo che coinvolgerebbe un rappresentante dello Stato.
Oggi l’uomo è costretto a vivere con il giubbotto antiproiettile insieme alla famiglia: “Io e mia moglie lo indossiamo sempre, ma anche i nostri figli quando tornano a Foggia a trovarci. Io intanto ho dovuto lasciare l’agenzia investigativa, non c’erano più le condizioni per continuare. Dopo l’episodio della bomba chiesi allo Stato di potermi difendere con il porto d’armi ma la Prefettura di Foggia (ex prefetto Mariani) mi negò questa possibilità”. “La bomba fu correlata – si legge nel provvedimento – alla generica esposizione al rischio di qualunque cittadino”. “Una motivazione che posso accettare a Baghdad, non a Foggia – l’amaro commento di Ciuffreda -. Non auguro a nessuno di ritrovarsi nella mia situazione. Sono abbandonato. Sono costretto a rientrare prima che fa buio e ad uscire quando c’è la luce. Sono costretto a stare sempre tra la gente”.
Ciuffreda è demoralizzato, ma non demorde e confida nella Magistratura: “Spero vada avanti”. Infine, ripensando a quanto vissuto in questi anni, commenta: “Tornassi indietro non denuncerei. Quello che ho fatto non vale quello che ho procurato alla mia famiglia. Avrei messo il mio orgoglio da parte ma non avrei procurato danni ai miei cari“.
La storia, però, racconta altre vicende. È soltanto grazie alle denunce delle vittime, alla fiducia nella Magistratura che un territorio violentato dalla criminalità, come quello foggiano, può sperare in un reale riscatto e in un futuro libero dalle mafie.