Condanna annullata e processo in appello da ricelebrare. Questa la decisione della Cassazione nel procedimento a carico dei fratelli Alessandro e Mario Lanza (foto sopra), 42 e 39 anni, ritenuti dall’accusa esponenti di spicco della batteria mafiosa della “Società Foggiana”, Sinesi-Francavilla. Annullata la condanna a 7 anni e 2 mesi a testa nel processo “Piazza pulita” per le presunte estorsioni all’Amica, azienda che gestiva la raccolta dei rifiuti nel capoluogo dauno. Carte rispedite a Bari dove il processo di secondo grado ricomincerà da zero.
Secondo i magistrati della DDA di Bari, i Lanza avrebbero incassato stipendi senza mai recarsi al lavoro. Inoltre, i dipendenti dell’azienda sarebbero stati costretti ad accompagnare i due fratelli a sbrigare faccende personali con l’auto di servizio. L’azienda sarebbe stata costretta a “mantenere il rapporto lavorativo in atto – recita il capo d’imputazione –, nonostante i due imputati non svolgessero alcuna attività. La minaccia consistette nell’aver fatto chiaramente intendere che se l’Amica si fosse opposta alle loro pretese, vi sarebbero state ritorsioni personali e familiari nei confronti dei responsabili”.
“Ho saputo da miei vecchi collaboratori – disse l’ex manager dell’azienda dei rifiuti – che non si riusciva a far lavorare alcuni dipendenti di una coop, come i fratelli Lanza. Da quello che mi fu detto questi personaggi stavano in azienda senza fare niente, oppure qualche volta imponevano agli ispettori dell’azienda di portarli in giro con la macchina in servizio per sbrigare i loro affari. I miei interlocutori aggiunsero che nessuno poteva interloquire o intervenire nei confronti di questi due personaggi perché erano legati alla malavita”. Storie ormai lontane nel tempo, risalenti al 2009.
Per la difesa, i Lanza non furono mai assunti dall’azienda, ma da una sorta di cooperativa satellite che lavorava per conto della casa madre, e per la quale sarebbero rimasti in servizio due mesi.
Nell’ambito della stessa inchiesta, vennero condannati in via definitiva, il capo clan Federico Trisciuoglio (batteria omonima) e il figlio Giuseppe: inflitti ad entrambi 7 anni e 2 mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso nei confronti dell’Amica. L’azienda fu costretta a “mantenere in atto il rapporto lavorativo instaurato con Giuseppe Trisciuoglio corrispondendogli stipendi per un importo netto di 66mila euro dal 2006 al giorno dell’arresto nonostante non svolgesse palesemente alcuna attività lavorativa”. (In alto, la vecchia sede di Amica e Mario Lanza; sullo sfondo, il palazzo della Cassazione a Roma)