Le “cicatrici” dell’emergenza Covid e la necessità di ripartire con la mobilità attiva per tentare di ridurre il gap con le regioni del nord Italia. Il direttore generale di Casa Sollievo della Sofferenza, Michele Giuliani, spiega il piano dell’ospedale di San Pio per ripartire. “Ma serve una riorganizzazione rapida del sistema e il sostegno della Regione Puglia”, dice a l’Immediato.
Direttore, Casa Sollievo sta attraversando una fase delicata tra emergenza Covid e sostenibilità dei conti. Quale sarà il suo approccio in questa fase?
Io sono per la razionalizzazione, a me il taglio della spesa fa paura. Quando dicono che tolgono il 5 per cento mi sembra una cosa assurda, soprattutto in sanità. Così si rischia di tagliare poco alcuni aspetti che avrebbero bisogno di sfrondate del 20%, e al contrario di penalizzare fortemente voci che invece andrebbero incrementate. Sarebbe drammatico. Oltre al ruolo sanitario fondamentale dell’ospedale di San Pio, che vanta rapporti scientifici internazionali, va sottolineato infatti il ruolo decisivo di volano socio-economico per questo territorio: ci sono 100 milioni di euro di stipendi netti, tutte risorse reali.
L’emergenza Coronavirus ha messo a dura prova l’organizzazione e l’immagine di un ospedale che, secondo alcuni, stava già cominciando a perdere appeal: diversi nomi di peso in campo medico hanno lasciato San Giovanni Rotondo
Non è così. A febbraio, cioè l’ultimo mese prima dell’emergenza, è stato uno dei mesi più intensi per le attività. Eravamo pieni per quantità e case mix. Poi da marzo tutto è cambiato.
A che punto siete con la gestione della pandemia? Diversi reparti Covid sul territorio pugliese hanno chiuso i battenti dopo aver dimesso tutti i pazienti…
I dati dei contagi nella nostra provincia sono evidenti a tutti. Noi ogni giorno dimettiamo pazienti. Al momento abbiamo un’area Covid – 150 posti letto tra Malattie infettive e Rianimazione, NdR – occupata al 50 per cento. Bisogna considerare tuttavia la complessità media dei pazienti che abbiamo ricoverato: abbiamo imparato tanto in questa fase.
Che giudizio ha della sinergia con il Policlinico Riuniti di Foggia?
Abbiamo viaggiato allo stesso passo. Con Vitangelo Dattoli abbiamo lavorato bene. Bisogna però dire che siamo stati tutti spiazzati da una malattia che non conoscevamo. Dal nord Italia ci sono arrivate indicazioni che non erano molto congrue rispetto al livello di emergenza. Ci arrivavano pazienti già con le vie respiratorie particolarmente compromesse e, a quel punto, è davvero difficile intervenire.
Vi sono capitati casi di Covid-like?
Qualche decina. Pur avendo un quadro clinico molto complicato, i tamponi sono risultati tutti negativi. Può capitare, infatti, di trovarsi di fronte a pazienti Covid con polmoni compromessi ma con naso e gola puliti. Spesso asintomatici. È chiara la difficoltà nella fase iniziale rispetto a questi casi. Gli ottimi rapporti con lo Spallanzani di Roma, da questo punto di vista, sono stati molto utili. In casi di questo tipo, i passaggi fondamentali sono l’RX e le Tac. Ora nello screening che facciamo per il pre-ricovero, abbiamo messo assieme al tampone anche RX toracico. Una cosa è certa: di questa malattia dobbiamo ancora capire tanto. All’inizio, l’esperienza lombarda non è stata molto utile per la costruzione di un approccio diverso, e qualitativamente migliore, nel trattamento dei positivi.
Lei è convinto, come alcuni suoi colleghi, che in Puglia siamo stati molto fortunati per l’evoluzione dello scenario epidemiologico?
Al Nord hanno avuto una situazione completamente differente, ora si dice che i primi cluster risalgono a gennaio. Da noi è arrivato dopo il primo Dpcm, quando c’erano già misure di contenimento e diversi warning lanciati da diverso tempo. L’interconnessione e l’elevata mobilità tra Lombardia e Cina sono sono stati elementi decisivi. Da noi ci sono state altre dinamiche scatenanti.
Che ruolo ha avuto in questo senso l’interconnessione sanitaria? Tutti i cluster si sono verificati in Comuni che hanno un’alta percentuale di operatori delle strutture sanitarie e socio-sanitarie della Capitanata
Anche da noi. Quando è arrivato il primo caso non screenato, positivo, l’ospedale era pieno. Abbiamo una velocità di turnover nei posti letto altissima. Con questa rapidità, i pazienti ruotano celermente e c’è inoltre una intensa attività ambulatoriale, di day surgery e day hospital. Questa velocità di rotazione, con l’indice elevato di rapidità del contagio, ci ha messi in seria difficoltà.
Il problema ora è capire cosa succederà in autunno. Siete preparati ad una eventuale nuova ondata?
Le cicatrici le abbiamo tutti. Certo, abbiamo acquisito una grande esperienza, ma il prezzo pagato è elevato perché non abbiamo il know-how specifico di altri ospedali come il Cotugno di Napoli e lo Spallanzani a Roma. I cosiddetti eroi in corsia si sono trovati dinanzi ad un mostro sconosciuto, con un livello elevato di paura. Quando mi hanno raccontato che alcuni dormivano in garage per salvaguardare i propri cari, ho capito che era il momento di intervenire mettendo a disposizione una struttura alberghiera per dare dignità a chi, giustamente, ha fatto sacrifici per mettere al riparo le famiglie. Se e come tornerà il virus lo scopriremo, ma credo si possa dire che forse siamo migliorati noi e non che il virus si sia modificato da Nord a Sud. Ma sono passati solo tre mesi per fare valutazioni di ogni genere. Più complessivamente, bisognerà considerare il fatto che i virologi rappresentano uno spicchio piccolissimo della complessità del governo sanitario, e il loro compito sarà certamente ridimensionato nella seconda fase. C’è una risposta ampia di bisogni di salute che è passata in secondo piano con la vocazione Covid degli ospedali. In pronto soccorso noi avevamo una media giornaliera di 150 accessi, siamo scesi sotto i 50 durante l’emergenza Coronavirus.
Qual è la sua lettura? C’erano prima accessi inappropriati o adesso c’è paura per il rischio contagio?
Entrambe le cose. Prima magari si veniva per lievi traumi contusivi che adesso, forse, si curano a casa, come si faceva una volta. Poi è chiaro che c’è un effetto deterrente scaturito dalla diffusione della patologia.
La Regione inizialmente vi aveva escluso dalla rete Covid, ora cosa vi aspettate per il futuro
Dobbiamo comportarci meglio come sistema. A livello territoriale abbiamo già un tavolo aperto con l’Asl e il Policlinico di Foggia. Serve precisare meglio il fabbisogno reale della provincia e su questo organizzare i servizi, senza sovrapposizioni. Noi, per esempio, facciamo attività territoriali, operiamo nel campo delle post acuzie. Quanto alla Regione, abbiamo un dialogo costante, ma noi chiediamo altro rispetto a ciò che viene prospettato. Siamo consapevoli del passaggio di ogni euro di spesa dal vaglio del ‘super commissario’ Mef, ma è anche vero che le risorse a disposizione di regioni come la Puglia non sono sufficienti. Questa è la fase dell’integrazione, il Covid ci ha insegnato che non ci possono più essere singole realtà che operano isolate dal resto del contesto. Inoltre, serve un piano concreto per la mobilità passiva.
Questa è una vostra battaglia da tempo, cosa serve alla sanità pugliese per essere attrattiva?
La Lombardia vive di questo. Dopo l’emergenza Covid è cambiato molto lo scenario, molti pazienti non saranno più disposti a fare viaggi della speranza per prestazioni banali. La Regione spende circa 200 milioni di euro per le cure fuori regione, e spesso si tratta di setting assistenziali di basso livello. Casa Sollievo ha elevati livelli di mobilità attiva, però nel 2018 non ci sono stati riconosciuti 5 milioni di euro di attività che noi avevamo svolto: è stato un colpo duro per i conti. Non possiamo giocare a perdere, nel 2019 abbiamo dovuto fare valutazioni differenti. Per ridurre il gap con la Lombardia, l’Emilia e altre regioni attrattive, bisogna ridistribuire i compiti delle strutture e migliorare l’offerta con investimenti specifici. Anche sulla mobilità attiva servirebbe un progetto sperimentale: basterebbe investire 50 dei 200 milioni che attualmente spende la Puglia e valutare i risultati in termini di miglioramento dell’offerta sul territorio. Ci sono pazienti che per venire da noi fanno dieci ore di auto, situazioni assurde alle quali bisognerà dare una risposta in tempi rapidi.