Familiari preoccupati per le sorti di Aleandro Di Fiore, il 38enne buttafuori di Foggia condannato per il tentato omicidio di un ragazzo di Lucera nei pressi della discoteca “Domus”. Il 9 marzo scorso Di Fiore era evaso dal carcere di via delle Casermette prendendo parte alla maxi fuga di 72 detenuti. Raggiunse la sua abitazione distante circa 200 metri dal penitenziario, poi si consegnò alla polizia. Per i disordini di quel giorno, sono stati trasferiti in altre strutture ben 107 ristretti, tra i quali il buttafuori, condotto a Taranto. Da allora, i parenti e la sua fidanzata ne hanno perso le tracce. Non più una notizia, una lettera, una telefonata. Il buio.
Solo il tempo dell’interrogatorio di garanzia, seguito dal detenuto in videoconferenza. Una battuta al volo con l’avvocato e fine delle comunicazioni.
Nemmeno una telefonata ai familiari per tranquillizzarli e dire di stare bene. I colloqui non sono ammessi a causa dell’emergenza coronavirus. Le telefonate, invece, si possono fare solo su richiesta del detenuto. Ma Di Fiore non si fa vivo.
Tramite l’Immediato i familiari hanno rivolto un appello affinché si renda possibile almeno un contatto unico con il proprio caro. Vogliono sapere come sta. Genitori e fidanzata sono molto preoccupati, anche alla luce delle lettere inviate ai giornali da intere famiglie di detenuti che hanno gettato ombre sui recenti trasferimenti.
“Alla luce dell’emergenza sanitaria, le carceri dovrebbero incentivare i contatti telefonici – ci fa sapere l’avvocato Michele Arena – ma questo forse non sta avvenendo a Taranto. Ho assistiti in altri penitenziari che chiamano i parenti regolarmente. Qui c’è un problema vero e serio. Qualcosa che va fuori dal diritto”.
Di Fiore starebbe pagando oltremodo la folle fuga del 9 marzo: “In carcere c’era una forte agitazione – spiega il legale – ed Aleandro è entrato nel flusso di fuggiaschi a causa della situazione tremenda nel penitenziario. Ma pensava di fare subito rientro in cella. Appena ha notato un ispettore di polizia si è consegnato”.
Vista l’impossibilità dei colloqui, l’avvocato ritiene che le case circondariali si debbano organizzare per rendere possibile almeno un contatto tra detenuto e parenti per le informazioni minime. “Senza l’interrogatorio di garanzia non avremmo conosciuto nemmeno il luogo dove è stato trasferito”.