Non sono numeri ma persone, con una storia disumana e un viaggio di salvezza che passa però per un calvario. Sono loro i protagonisti inconsapevoli di quello che ai nostri occhi si chiama problema dell’immigrazione, gli uomini e donne, bambini e ragazzi che approdano sulle nostre coste morti o vivi per miracolo. Di alcuni, all’interno del Festival del Giornalismo di Perugia appena concluso la scorsa domenica, ci è dato conoscere voce e sentimenti, e anche una piccola luce sull’ombra del campo profughi e del cosiddetto Gran Ghetto di Foggia.
“Il tribunale di Udine mi spedì a Foggia dove per fortuna ci sono rimasta per un breve seppur intenso periodo – racconta ancora piena di dolore Maria, il nome che diamo alla ragazza iraniana perché la sua identità sia protetta –. Foggia è stata solo una delle varie tappe di un viaggio durato anni fatto a piedi o con mezzi di fortuna. Nel campo c’erano solo baracche fatiscenti, uomini e donne sistemati insieme senza distinzione. La doccia all’aria aperta esposti alle intemperie, nudi tra sconosciuti”. Ma chi è Maria? Una bellissima ragazza dagli occhi di rara luce e dai capelli perfetti, madre di 3 figli. Nessuno oggi penserebbe mai che il suo corpo è pieno di segni lasciati dalle torture, che ha dovuto subire nel suo Paese d’origine. E la sua lotta non è terminata. “La tortura più grande che ho subito – dice – è stata in Italia quando mi hanno levato i miei figli perché non ho una casa”. Ci sono molti tipi di viaggio, per piacere, per affari, per lavoro, per salute. Quello di Maria non può che chiamarsi viaggio della disperazione se a 19 anni si decide di scappare con una figlia piccola per mano, procedendo a piedi per un dove che si spera sia comunque migliore. Il suo è il viaggio di molti, un percorso che può durare anni, dove si fugge da una morte certa per sperare in una fine incerta.
Più che un viaggio diventa una lotta per la sopravvivenza. Prima di arrivare al mare ed approdare ad altre coste, molte di queste persone attraversano territori impervi, come il deserto; oppure regioni dilaniate da guerre intestine dove spesso questi viaggiatori sono per caso direttamente coinvolti. A fare luce su questa realtà è Tareke Brhane, presidente del Comitato “3 ottobre”, il quale racconta che lungo il tragitto spesso si passa da un carcere ad un altro senza sapere perché e le donne rigorosamente violentate. Immischiati in guerre non proprie, solo perché malauguratamente ci si trova di passaggio in quella regione. La disperazione di queste persone è grande tanto quanto la voglia di salvarsi, tanto quanto il desiderio di pace: riposare senza persecuzioni e torture. E così questi migranti se non sono morti prima, lungo il tragitto per terra, ecco a loro il mare. Il confine della frontiera più cupa, dove quella vista blu sembra voler sussurrare speranza. Ecco che però è tutto da ricominciare, con nuove e gravi vicissitudini. Non una nave da crociera, ma ad aspettarli sono mezzi di fortuna, una barchetta non dove salire, ma dove nascondersi, spesso in un container per giorni e giorni. E se il loro fisico è ancora forte, se non muoiono in mare, sfiniti arrivano sulle coste europee dove li aspetta una nuova lotta, quella della burocrazia spesso contraddittoria, quella delle leggi su cui non si trova un accordo, quella del razzismo. E vengono etichettati come immigrati, clandestini, “il problema che non possiamo risolvere” o “i poveracci da salvare”. La loro lotta qui ha un nuovo inizio.
La voglia di lavorare e darsi da fare è talmente alta che sfidano anche attività lavorative irregolari e disumane. A Foggia parlano di un posto chiamato Gran Ghetto dove albergano a stagione almeno 600 persone di origine del nord ovest dell’Africa, chiamate a raccogliere i pomodori. A raccontarlo è Suleman Diara, giovane di 29 anni originario del Mali. “Ho conosciuto il Gran Ghetto grazie al passaparola. E’ un posto fuori dal centro abitato, ricavato in mezzo al campo di lavoro dove la vita è dura e ingiusta. Per capire se era vero ciò che si diceva sono andato a constatarlo di persona lavorando nel 2011 alla stagione di raccolta dei pomodori, precisamente da metà luglio alla fine di agosto. Albergavamo in baracche messe su con cartone e plastica. 600 ragazzi è il numero minimo per effettuare la raccolta. Ci sono ragazzi provenienti dal Burkina Faso, Mali, insomma dall’Africa Occidentale principalmente. Il proprietario del campo per racimolare lavoratori si avvale di un intermediario, il caporale, a cui bisogna pagare 5 euro per il viaggio.
Il lavoro non è regolamentato con un contratto, nel senso che se vuoi lavorare devi farlo a nero, altrimenti non sei accettato. Il pagamento non è a giornata, ma 3,50 euro a cassone. Un cassone arriva a contenere 300 chilogrammi di pomodori. Questo significa che devi lavorare senza fermarti dalla mattina alla sera per riuscire a riempire diversi cassoni e racimolare un minimo per pagarti il cibo. Ma la maggior parte di noi riesce a raccogliere un massimo di 10 cassette. Per poi arrivare a sera nel Gran Ghetto più morto che stanco. Dalla mia esperienza ho potuto notare che la situazione nei campi agricoli è uguale in tutta Italia ad eccezione di Torino dove al lavoratore viene fatto un contratto regolare”.
Suleman ha lavorato solo per una stagione nel Gran Ghetto di Foggia. Per poi fuggire inorridito, ma con la voglia di salvare lui e altri nella stessa situazione di sfruttamento delle campagne. Anche per lui è stata Foggia solo una delle tante tappe di un viaggio difficile, ai limiti della sussistenza. Oggi però il futuro di Suleman è vicino. Vive a Roma dove grazie ad una intuizione e a tanta forza di volontà e d’animo ha messo su un progetto di micro reddito gestito da ragazzi africani che grazie alle loro conoscenze e alla loro bravura producono yogurt solidale e naturale. Il progetto si chiama Baricamà: dallo sfruttamento nelle campagne all’autogestione del lavoro e l’inserimento sociale. Luogo di produzione è il caseificio Casale di Martignano e gli unici ingredienti del prodotto sono latte biologico e fermenti lattici vivi, confezionato in barattoli di vetro e consegna in bicicletta. Una vera iniziativa nel rispetto del lavoratore ed ecosostenibile, per il cui approfondimento Suleman e i suoi collaboratori accolgono il lettore sul sito web barikama.altervista.org.
“Occorre guardare all’immigrazione come storia di persone e non come problema – sostiene Lucio Battistotti, direttore della Commissione Europea Ril – e attuare subito una politica dell’immigrazione pro attiva”, sanando quello che per il giornalista Luca Attanasio è “un problema di comunicazione e di percezione del fenomeno che invece va affrontato con una analisi lucida”. Dal grado di coinvolgimento personale nella vicenda forse si può misurare il livello di umanità raggiunto e rispondere all’interrogativo posto da Tareke Brhane: “A che tipo di umanità aspirate?”.