Non sarà Antonio Laronga a raccogliere il testimone di Ludovico Vaccaro alla guida della procura più difficile d’Italia. Lo scorso 24 marzo sono scaduti i termini per candidarsi alla direzione dell’ufficio giudiziario foggiano e il nome del procuratore aggiunto, che in molti davano come favorito per meriti, esperienza e conoscenza del territorio, non c’è. Una rinuncia che ha sorpreso, ma che arriva da un magistrato che a Foggia ha vissuto per quasi tre decenni, affrontando la criminalità, i silenzi della società civile e i vuoti della politica.
“La mia è stata una scelta consapevole”, spiega Laronga in esclusiva al Corriere del Mezzogiorno, originario di Torremaggiore, classe 1966, figura di riferimento nella lotta alla mafia foggiana. Ufficialmente, ha sentito la necessità di “misurarsi con altro”, ma il vero motivo è un altro, più profondo, più intimo. “Questo è un territorio particolare, molto particolare”, dice. Un territorio in cui ha lavorato per 29 anni, conducendo e coordinando alcune delle inchieste più importanti degli ultimi venticinque. Un territorio che oggi sente di aver dato tutto ciò che poteva.
Il magistrato, che in passato è stato a lungo sotto scorta – e che da due anni vive nuovamente sotto tutela per ragioni legate alla sua attività – ha indicato Brindisi e Terni come possibili nuove destinazioni. Entro l’anno dovrebbe conoscere l’esito del trasferimento. Nel frattempo, la corsa per la procura foggiana è tra due candidati: Renato Nitti, oggi procuratore a Trani, ed Enrico Infante.
Laronga racconta senza retorica cosa significhi vivere sotto scorta, cosa comporti, anche nella vita quotidiana, una costante vigilanza. “Per le attività basilari si trova una soluzione organizzativa, ma è la vita pubblica a diventare davvero complessa”, ammette. La scrittura – ha pubblicato due libri sulle mafie foggiane – è diventata uno dei pochi modi per confrontarsi con la società civile, in un contesto in cui uscire, andare a teatro o al cinema è praticamente impossibile. Non per timore, ma per rigore. “Chi vive e lavora in un territorio come questo ha il dovere di marcare una distanza. Non si può stringere la mano a chiunque, non si può permettere che qualcuno si ammanti di una vicinanza che non esiste”.

Un episodio emblematico lo racconta con lucidità: al termine di un interrogatorio, una persona indagata si alza, lo guarda, e gli tende la mano. Laronga rifiuta. “Un uomo dello Stato deve essere chiaro. Non sono come te”, dice. È questo il confine netto che ha segnato il suo percorso in Capitanata: niente ambiguità, nessuna confusione tra le parti.
Ma ciò che più lo ha segnato, nel corso degli anni, non sono solo le minacce, né i rischi, quanto la lenta, continua erosione etica che ha visto crescere intorno a sé. “Il vero tracollo, a Foggia, è stato morale”, ammette con un filo di amarezza. Non parla solo dei reati che arrivano in procura, ma di quelli che non arrivano, di comportamenti che restano fuori dal perimetro del codice penale ma che dicono tutto di una società che ha smarrito il senso del limite.
È questa la parte più difficile da affrontare: la rassegnazione, il conformismo, il degrado morale. “Foggia ha subito un tracollo etico difficile da commentare”, dice. Eppure non cede al cinismo. Parla di una mafia che si è trasformata, che ha fatto un salto di qualità criminale, spostandosi da contesti arcaici a mercati sofisticati, cambiando pelle ma non natura. È lo “spillover” della mafia garganica, come lui stesso lo definisce: da faide di sangue a forme più raffinate di infiltrazione, più insidiose e meno visibili.
Non si nasconde quando gli si fa notare il clima cupo in città. “Sì, la città è spenta”, ammette. E con le elezioni in arrivo, il timore è che i comitati elettorali tornino ad essere “discariche di interessi privati e malaffare”. Non serve neanche entrare nei dettagli: “Dalle facce che li compongono si possono intuire molte cose”.
Ora è tempo di lasciare. “Io sono un foggiano nelle cui vene scorre fiducia”, dice. Ma è anche un uomo che sente il peso degli anni passati a combattere, spesso in solitudine. “Sento che gli anni hanno messo distanza tra quello che la mia professione mi ha reso e come questa terra è cambiata”. In peggio, aggiunge senza bisogno di ulteriori parole.
Tratto da Corriere del Mezzogiorno, rielaborando il pezzo ma senza copiarlo e incollarlo integralmente