È stato sentito, fino alla tarda serata di ieri, Roberto Sinesi, 62enne boss di Foggia detto “Lo zio”, detenuto al 41bis ad Oristano. In collegamento dal penitenziario, il capomafia del clan Sinesi-Francavilla ha ricordato l’attentato subito il 6 settembre 2016 al rione Candelaro di Foggia. Quel giorno, erano le prime ore del pomeriggio, Sinesi era in auto, una Fiat 500 L nera, in compagnia della figlia Elisabetta che era alla guida e il nipotino di 4 anni. Ad un certo punto, un commando armato di tre o quattro persone si avvicinò al veicolo ed esplose numerosi colpi d’arma da fuoco ferendo gravemente boss e bambino. Illesa la donna. Scene da far west a cui prese parte lo stesso Sinesi che rispose sparando ai rivali con la propria pistola.
Per questa vicenda c’è ora a processo, nella Corte d’Assise del Tribunale di Foggia, Giuseppe Albanese, 44 anni, detto “Prnion”, membro di rilievo del clan Moretti-Pellegrino-Lanza, spesso in conflitto con i Sinesi per il controllo criminale del territorio foggiano. “Prnion” è accusato dalla Dda di Bari di aver fatto parte del commando. Sinesi, però, non ha confermato, come era facile prevedere, la presenza di Albanese, rimanendo piuttosto evasivo e limitandosi a dire che a sparare furono due soggetti “molto alti”, mentre almeno un altro rimase in macchina. Sinesi è alto 1:75 circa, Albanese poco più basso.
I pentiti che inguaiano “Prnion”
Ad oggi ben quattro collaboratori di giustizia hanno indicato Albanese tra i membri del commando che provò ad ammazzare “Lo zio”. Lo hanno sostenuto Carlo Verderosa, ex “morettiano”, l’altamurano Pietro Nuzzi che l’avrebbe appreso in carcere, il brindisino Andrea Romano con cui si confidò Emiliano Francavilla durante un periodo di detenzione e il sammarchese Patrizio Villani, ex killer dei Sinesi, oggi collaboratore di giustizia.
Verderosa in particolare “riferì – si legge nell’ordinanza di arresto di “Prnion” – che Francesco Sinesi ‘ce l’aveva a morte’ con Albanese in quanto sapeva che questi aveva partecipato all’agguato ai danni del padre Roberto e che per farlo lui e i suoi complici avevano utilizzato un’auto rossa (500 L) a bordo della quale vi erano, oltre Albanese, anche Massimo Perdonò (foggiano, ndr), Francesco Scirpoli (mattinatese, ndr) e Mario Luciano Romito (il boss manfredoniano ucciso nella strage di San Marco del 2017, ndr). Tra questi spicca il nome di Scirpoli detto “Il lungo”, proprio per via della sua altezza che andrebbe ad avvalorare quanto riferito dal boss ieri a processo. Ma siamo solo nel campo delle ipotesi.
Sempre Verderosa riferì, inoltre, che Albanese gli disse che l’agguato ai danni di Sinesi fu eseguito “con un kalashnikov e con una pistola (circostanza riscontrata dagli accertamenti tecnici eseguiti sul luogo dopo i fatti, e riferiti al numero di armi utilizzate nel corso dell’agguato dai carnefici e dalla vittima)”.
La versione del “Capellone”
Ma a scompaginare l’impianto accusatorio ci ha pensato di recente un altro pentito, Giuseppe Francavilla detto “Pino Capellone”, un tempo ai vertici del clan Sinesi-Francavilla, che durante la scorsa udienza ha spiegato che a premere il grilletto fu un gruppo di manfredoniani composto da pezzi da Novanta della mafia garganica. Glielo avrebbe riferito, in carcere, Pietro La Torre detto “U’ Muntaner” o “U’ figlie du poliziot”, esponente del clan Lombardi-Scirpoli-Raduano. “Girava voce che era stato Albanese ma La Torre mi riferì quello che gli disse il cognato Pasquale Ricucci. A sparare furono lo stesso Ricucci, Mario Luciano Romito e il foggiano Massimo Perdonò anche se Rocco Moretti mi escluse il coinvolgimento di quest’ultimo”. Stando al pentito, La Torre non parlò affatto di Albanese aggiungendo che Ricucci gli disse: “Sinesi non è morto perché c’era il bambino”.
Il 29 ottobre 2016, a meno di due mesi dalla sparatoria al Candelaro, fu lo stesso Albanese a finire nel mirino di un attentato mentre si trovava nel bar H24 di via San Severo, un’azione criminale in risposta al tentato omicidio dello “Zio”. Albanese scampò alla morte nascondendosi dietro al bancone e poi rifugiandosi nel bagno, mentre venne ucciso il 21enne Roberto Tizzano e ferito il coetaneo Roberto Bruno. Per questa vicenda sono stati condannati in via definitiva a 20 anni di reclusione i mandanti, Francesco Sinesi, figlio di Roberto e Cosimo Damiano Sinesi, nipote del capoclan. 30 anni, invece, a Patrizio Villani, esecutore materiale dell’agguato, oggi collaboratore di giustizia. Ignoto l’altro killer.