Rinviato a giudizio Michele D’Alba, 65enne imprenditore foggiano, originario di Manfredonia. La decisione al termine dell’udienza preliminare che si è tenuta a Bari. Il processo si svolgerà invece a Foggia. Su di lui pende la grave accusa di “favoreggiamento aggravato dalla mafiosità”. Stando all’impianto accusatorio formulato dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari, pm Bruna Manganelli, D’Alba avrebbe agevolato alcuni esponenti della Società Foggiana non denunciando le estorsioni. In una lista del racket sequestrata dai carabinieri ai clan della città c’era scritto: “Tre Fiammelle, 4mila ogni tre mesi”. Tre Fiammelle è la storica azienda riconducibile all’imprenditore raggiunta da interdittiva antimafia nel 2023. Quest’anno, invece, lo stesso provvedimento ha riguardato la “Lavit spa”, colosso della lavanderia industriale sempre della galassia D’Alba.
Nell’avviso di conclusione indagini si parlava di “delitto di favoreggiamento aggravato e continuato, di cui agli artt. 81, 378, 416 bis. 1 c.p.”. In buona sostanza, in base a quanto sostiene la Dda, il manager avrebbe “con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso”, ripetutamente omesso “di denunciare alle Autorità di essere sottoposto ad estorsione e di versare, a tale titolo, somme di denaro contante periodiche in favore dell’associazione di stampo mafioso denominata Società Foggiana, consegnandole ad esponenti della sotto-articolazione dell’associazione denominata batteria Moretti-Pellegrino-Lanza, tra cui i pregiudicati Francesco Tizzano e Ernesto Gatta, entrambi condannati, con sentenza passata in giudicato, per il delitto di associazione di stampo mafioso nell’ambito del procedimento penale Decima Azione (nr. 5557/17 DDA)”.
Il fatto, si legge ancora nelle carte giudiziarie, è “aggravato ai sensi dell’art. 416 bis. 1 c.p., perché commesso al fine di agevolare l’associazione di stampo mafioso denominata Società Foggiana, la cui esistenza e operatività in Foggia costituisce fatto notorio attestato da plurime e concordanti sentenze passate in giudicato”.
Questo in virtù della “appartenenza di Tizzano e Gatta alla batteria Moretti-Pellegrino-Lanza – si legge ancora -, sotto-articolazione giudizialmente riconosciuta della Società Foggiana, alla pratica estorsiva quale modalità operativa del programma associativo; all’afflusso dei proventi illeciti nella cassa comune del sodalizio, per il sostentamento delle finalità associative. Fatto commesso in Foggia, da un’epoca prossima al mese di settembre 2017 sino al 16.4.2020″.
La vicenda di Tizzano e Gatta è ben nota agli inquirenti. I due “morettiani” vennero arrestati e poi condannati a 14 e 10 anni in via definitiva per le estorsioni alla Rsa “Il Sorriso” di Foggia di proprietà di Paolo Telesforo, un tempo socio di D’Alba nella gestione del “Don Uva”. Stando alle intercettazioni, i mafiosi avrebbero bussato a D’Alba non potendo arrivare a Telesforo. “Questa palla se la deve tenere D’Alba” una delle frasi captate dagli investigatori dell’epoca. Questioni racchiuse nelle interdittive antimafia che hanno colpito la famiglia D’Alba negli ultimi mesi.
A complicare la posizione dell’imprenditore potrebbero aggiungersi le recenti dichiarazioni fornite agli inquirenti da Giuseppe Francavilla detto “Pino Capellone”, collaboratore di giustizia da gennaio scorso: “L’ho conosciuto nel 2013 e sapevo che pagava. Lui è inserito nella lista dei tre mesi che hanno i Moretti. Io con lui volevo iniziare un’attività per aprire una lavanderia industriale. Lui all’epoca aveva la ditta di pulizie le Tre Fiammelle. D’Alba me lo portò Ivan D’Amato. Mi disse che era un’ottima idea ma ci voleva un po’ di tempo. Poi sono stato arrestato per l’estorsione al bar Serano e quando sono uscito ho saputo che l’aveva fatta lui la lavanderia”.
E ancora: “Pagava ogni tre mesi 2500 euro ma poi si è lamentato perché gli affari andavano male e gli hanno abbassato la tangente. Ha pagato fino al 2018, quando sono stato arrestato pagava. Lo so con certezza perché arrivavano i soldi di D’Alba anche se l’estorsione era gestita dalla batteria Moretti. A quell’epoca pagava 2000 o 2500 euro al mese”.
Poi sul Don Uva, all’epoca guidato da D’Alba insieme a Telesforo: “D’Alba era socio di Telesforo che gestisce il Don Uva. So che i Moretti, ossia Tizzano ed altri volevano estorcere anche Telesforo ma io non ero d’accordo in quanto ero convinto che i Telesforo li facevano arrestare. Loro presero il Don Uva e i Moretti si interfacciarono con noi, con me, per dire: ‘Dobbiamo fare l’estorsione a Telesforo’ ed io gli dissi: ‘Lasciate stare perché come vi avvicinate vi fa arrestare’. Dice: ‘No, la dobbiamo fare’. ‘E fatela’. E poi sono stati denunciati, se non sbaglio, ché subito dopo siamo stati arrestati noi”. Stando a Francavilla, erano i Moretti ad interfacciarsi con D’Alba: “Fino a quando stava Rodolfo Bruno aveva il dialogo con Michele, sì. E se non erro gli disse anche di lasciare stare”. La pm: “Cioè lo stesso D’Alba disse: ‘Vedi, non fare niente perché quelli ti fanno arrestare?’“. Francavilla: [annuisce]”.
È durissima la posizione della procura barese nei confronti dell’imprenditore come si evince dal ricorso contro il controllo giudiziario per la Lavit. I magistrati antimafia parlano, infatti, di “infiltrazione e condizionamento criminale” della Lavit, “stabile, duraturo e strutturale”. D’Alba avrebbe avuto contatti “periodici e continuativi, non già caratterizzati da subalternità ma, al contrario, dalla piena parità di posizioni” con un esponente di spicco della criminalità. D’Alba, scrive il procuratore capo Roberto Rossi nell’appello, “lungi dall’apparire una mera vittima passiva del racket foggiano, al contrario, si confronta alla pari col sodalizio criminale, discutendo con gli esponenti della cosiddetta Quarta Mafia”.