“Mi sento come un topo in gabbia. No perché comunque uno sai che può pensare? Adesso stanno a casa abbiamo la certezza che sappiamo dove stanno”. Parlava così Giovanni Iannoli detto “Smigol”, 36enne viestano arrestato lo scorso 9 agosto con l’accusa di aver ucciso Antonio Fabbiano, giovane di 25 anni trucidato nella guerra di mafia sul Gargano. Fabbiano fu ammazzato a colpi di kalashnikov mentre l’amico che era con lui, Michele Notarangelo alias “Cristoforo”, riuscì a fuggire.
Uno scontro tra giovani gruppi criminali, il clan Iannoli-Perna e il clan Raduano-Della Malva, in lotta per il controllo dei traffici di droga nella città del Pizzomunno. Fazioni scissioniste dopo l’azzeramento della famiglia Notarangelo.

Iannoli temeva per la sua vita e ad una conoscente diceva di temere anche per la vita del cugino Claudio Iannoli alias “Cellin” e della famiglia di quest’ultimo. Nelle 90 pagine dell’ordinanza cautelare firmata dal giudice Cafagna, ricca di interrogatori e testimonianze di parenti e amici dei giovani criminali, si legge: “Iannoli manifestava la sua riprovazione di una eventuale rappresaglia nei confronti del cugino in quanto nella sua abitazione conviveva con la moglie e i figli e un tale atto avrebbe violato le tacite regole che vigono negli ambienti criminali di non eseguire omicidi nei contesti familiari della vittima (‘Sono cose brutte pure a livello diciamo di strada se uno sa che tu sei andato ad uccidere ad uno dentro una casa e nella casa c’era la moglie, i figli… è bruttissima come cosa…’)”.
Alcune questioni “Smigol” le avrebbe apprese da Gianmarco Pecorelli detto “Panino”, ammazzato un mese dopo Fabbiano, accusato di aver “tradito” il boss Marco Raduano per passare alla corte di Girolamo “Peppa Pig” Perna, giovane capoclan ucciso il 26 aprile 2019. Così Iannoli intercettato: “Quando è successo il fatto di Marco (Marco Raduano fu vittima di un tentato omicidio, ndr) che Gianmarco ancora si praticava con loro… è venuto un giorno e ha detto: ‘Gianni lo sai che hanno detto così, così e così, hanno detto che in poche parole dovevano uccidere a Claudio e dovevano aspettare… perché si andava a mettere uno che lo guardava e diceva che, dobbiamo aspettare, aspettiamo che esce per la, esce dalla casa… Claudio la patente non ce l’ha, o esce con il cugino che sarei io, oppure esce con la moglie non ce ne frega niente, hai capito che voglio dire?”.
“Infine – scrive ancora la gip – Iannoli riferiva di minacce ricevute dai ‘compagni di Gianmarco’, verosimilmente quei soggetti, sotto il controllo del Pecorelli, addetti alla vendita al dettaglio di stupefacenti (‘stanno solo minacciando a tutti i ragazzini, tutti quei compagni di Gianmarco, gli dicono che se ne devono andare a Vieste, dicono che a Vieste non ci possono stare più… Gli hanno detto proprio, voi ve ne dovete andare da qua, se no vi veniamo ad uccidere’)”.
“Emblematico – si legge nelle carte – il passaggio in cui Iannoli fa apertamente riferimento alla ‘guerra’ in atto a Vieste” e ad una frase pronunciata da Gianmarco Pecorelli ad un parente: “Qui a Vieste ci sta una guerra ed io sono un morto che cammina”.
Dall’ordinanza emerge che in molti sapevano del coinvolgimento di Iannoli nell’omicidio di Fabbiano, in primis i rivali del clan Raduano. In un’intercettazione captata dagli investigatori, il numero due del clan, Liberantonio Azzarone, nipote di Marco Raduano, parlava così: “Quelli che hanno ucciso ‘Pistillino’ (Fabbiano, ndr)… Gianni e un altro, ma non so se Panino oppure un altro. Però Gianni è sicuro”. L’interlocutore: “Gianni chi è?”, Azzarone: “Gianni Iannoli!”.
Lo stesso Azzarone, stando all’inchiesta, “si era posto a capo di una spedizione punitiva (insieme a Michele Notarangelo, ndr) nel paese di Vieste nei confronti dei componenti del gruppo avverso, con il principale intento di uccidere Pecorelli detto Panino”. Gianmarco Pecorelli morirà il 19 giugno 2018, circa un mese dopo l’omicidio Fabbiano.
Pecorelli, sospettato di aver spalleggiato Iannoli nell’omicidio di Fabbiano, temeva fortemente per la sua vita. Si descriveva come un morto che cammina. Una circostanza confermata da un parente del giovane durante un interrogatorio: “L’ultima volta che l’ho visto è stato il giorno prima della sua uccisione. Quando mi chiamò dicendomi di aprire il cancello perché stava per tornare a casa. Voleva che aprissi il cancello perché così non doveva attendere fuori l’ingresso nel mentre lo stesso veniva aperto”. E ancora: “Un giorno mi disse che se ne doveva andare da Vieste ed a quel punto io gli chiesi se lui c’entrasse con il tentato omicidio di Raduano e a quel punto rispose di si, che c’era pure lui quando gli hanno sparato”.