Vittime delle torture, avvenute in alcune baracche di via San Severo, periferia nord di Foggia, erano tre ragazze minorenni, di origine rumena, tra i 16 e i 18 anni. L’indagine scaturì dalla fuga di una di loro, scappata dal campo rom nel settembre del 2018. La giovane era riuscita a fuggire dopo essere stata selvaggiamente pestata con calci, pugni, schiaffi e cinghiate, sferrati in ogni parte del corpo, sulla faccia, sulla pancia e dietro la schiena, nonché trascinata per i capelli. La minore era riuscita a chiedere aiuto ad alcune persone, di nazionalità italiana, che occupavano un vicino accampamento e che chiamarono polizia e 118.
Le indagini capillari svolte dalla squadra mobile di Foggia, sotto il diretto e continuo coordinamento della procura, consentirono di accertare l’esistenza di uno schema messo a punto dagli arrestati secondo il quale le minori, tutte appartenenti a nuclei disagiati, una volta condotte nel campo con l’inganno e l’impiego degli stratagemmi più vari, venivano di fatto segregate all’interno di alcune baracche lì presenti, chiuse dall’esterno con una catena ed un lucchetto, picchiate continuativamente per più giorni per piegare le loro capacità di reazione e costrette a prostituirsi sotto il diretto controllo dei loro aguzzini.
In particolare, le indagini delegate dalla Direzione Distrettuale Antimafia alla squadra mobile di Foggia, Seconda Sezione, accertarono le ipotesi di reato in contestazione e di fare emergere, attraverso l’ascolto di una delle vittime, nonché tramite i riconoscimenti fotografici degli autori dei fatti delittuosi, oltre che le attività di sopralluogo svolte, gli accertamenti tecnici sui telefoni e l’esame dei social network, uno spaccato di cui si ignorava l’esistenza nel nostro territorio, di una delle nuove forme di “schiavitù moderna”, costituita dalla riduzione e dal mantenimento in stato di schiavitù di giovani straniere, per lo più sole e non in contatto con la famiglia, tutte minorenni da adibire al mercato della prostituzione, direttamente controllato dagli stessi fermati.
Controllate h24
È stato accertato, infatti, che nessuna delle vittime poteva scappare dal campo, essendo controllata 24 ore al giorno, sia durante la permanenza nel campo attraverso la segregazione nelle baracche, sia durante gli spostamenti dalla baracca, che avvenivano sotto il diretto controllo degli uomini del gruppo criminale e delle donne, fino alla SS 16 (direzione Lucera, posto a circa duecento metri dallo svincolo per via San Severo), in cui erano costrette a prostituirsi, dopo essere state accompagnate in automobile dagli indagati fermati. Gli arrestati ponevano in essere le loro condotte non solo con il costante e brutale impiego della violenza e delle minacce, ma anche approfittando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica delle vittime connesse alla loro minore età ed alla loro condizione di cittadine straniere, sole sul territorio italiano e prive di qualcuno che reclamasse la loro scomparsa e per di più senza mezzi (è stato accertato che i fermati, una volta condotte le minori nel campo, le privavano dei telefoni cellulari e dei documenti).
I ruoli
Febronel Costache, detto “Bal Parno”, rivestiva il ruolo di capo famiglia, posto in posizione di supremazia rispetto ai restanti membri del gruppo criminale, ed è colui che, dopo aver concorso nella riduzione in schiavitù delle vittime materialmente operato dai figli, garantiva il mantenimento di siffatto status, controllando che le stesse, gestite direttamente dai suoi figli Solomon Costache, S.D. e D.I., fossero piegate al loro volere (e dunque mantenute in stato di schiavitù), attraverso una serie continuativa di aggressioni fisiche, deprivazioni e segregazioni all’interno delle baracche, cui assisteva con assoluta indifferenza.
Costache raccoglieva, unitamente alla sua compagna, “Poiana” e per il tramite dei figli, almeno la metà dei proventi della attività di prostituzione che le minori erano costrette a praticare, organizzando al dettaglio l’attività di prostituzione e fornendo alle vittime i preservativi da utilizzare durante l’attività di meretricio e conducendole, da solo o insieme ai propri figli, sulla S.S.16, con direzione Lucera, dove controllava che si prostituissero permanendo sul posto con continui passaggi in automobile. “Poiana”, compagna di Febronel, riscuoteva in prima persona, anche per conto del capo famiglia, o direttamente dai coindagati o dalle minori vittime, metà del corrispettivo della attività di prostituzione.
La donna garantiva la prosecuzione della loro attività anche in caso di controlli all’esterno da parte delle forze dell’ordine, circostanza in cui si presentava, anche grazie alla difficoltà di effettuare una precisa identificazione delle minori, quale “zia” delle ragazze mantenute in condizioni di soggezione continuativa per ottenere il loro “affidamento”, nonché esercitando un controllo stringente sulle stesse per evitare che potessero fuggire dal campo o parlare con qualcuno, assistendo alle ripetute e violente aggressioni fisiche perpetrate da S.D. ai danni di una delle vittime, nonché fornendo loro i preservativi da utilizzare durante l’attività di prostituzione.
Si prostituivano anche se in gravidanza
Solomon Costache, insieme ai minori S.D. e D.I., esercitava sulle vittime poteri corrispondenti al diritto di proprietà, riducendole e mantenendole in stato di soggezione continuativa, fino ad azzerarne, attraverso l’impiego quotidiano della violenza e delle minacce, ogni capacità di autodeterminazione, riducendole al rango di “res”, facendole temere per la propria vita, nonché sottoponendole a continue deprivazioni e sofferenze fisiche e psichiche; conducendole sulla strada statale 16 dove controllavano che si prostituissero, permanendo sul posto con continui passaggi in automobile o nascondendosi dietro i cespugli; fornendo alle vittime i preservativi necessari ad esercitare l’attività di prostituzione alla quale erano costrette.
Ricevi gratuitamente le notizie sul tuo Messenger di Facebook. Ecco come