“Un processo indiziario e gli indizi non possono assurgere a prova. C’è stata molta fretta nell’individuare un responsabile di questo grave fatto. Anche la procura ha chiesto il rito immediato perciò si sono bloccate le indagini e non sappiamo chi siano i tre che fecero parte del gruppo di fuoco”. Così Pietro Nocita, decano degli avvocati penalisti, membro del collegio difensivo di Giovanni Caterino, il 40enne di Manfredonia condannato questa sera all’ergastolo – dopo quasi tre ore di camera di consiglio – con l’accusa di essere il basista della strage di San Marco in Lamis.
Per Nocita, sentito da l’Immediato dopo la sua requisitoria in Corte d’Assise, non sarebbero emerse coincidenze tra la cellula del telefono dell’imputato e il segnale del gps, per questo mancherebbe la prova della presenza di Caterino nella zona della mattanza di mafia. “Ergastolo? Richiesta dell’accusa scontata”, secondo Nocita. “Ma non ci sono dati sull’appartenza del mio assistito al clan Li Bergolis-Miucci. Nessuna prova e nessun pentito. Caterino era stato invitato a collaborare con la giustizia ma non ha potuto aderire perché non aveva nulla da dire”. Ma le carte dell’inchiesta sono stracolme di conversazioni durante le quali Caterino parlava apertamente dei suoi rapporti con i vertici del clan montanaro. Intercettazioni pubblicate in esclusiva da l’Immediato nei mesi scorsi. “Non è comunque una prova – la risposta di Nocita -. Sta di fatto che non è dimostrata la presenza di Caterino sul luogo della strage. Come dire di un gatto che va a caccia del topo ma il topo non c’è”. Poche ore più tardi, però, la Corte d’Assise ha sposato in pieno la richiesta della DDA di Bari stabilendo l’ergastolo per l’imputato.