“Assicurare la difesa di un accusato non significa ‘condividerne o sposarne le ragioni’, ma esclusivamente garantirne il giusto processo, ed il giusto processo si garantisce con tutti gli strumenti che la legge consente, sempre nel rispetto delle norme ordinamentali e deontologiche. Ogni cittadino è uguale davanti alla legge, qualunque sia il suo sesso, la sua etnia, la sua religione, la sua lingua, le sue convinzioni politiche, le sue condizioni personali e sociali ed ogni cittadino ha il diritto di essere difeso”. Lo afferma l’avvocato Giulio Treggiari, presidente della Camera Penale di Capitanata.
Il riferimento è alle ultime notizie di cronaca relative allo scioglimento per mafia dei consigli comunali di Cerignola e Manfredonia. “L’avvocato che assume la difesa di chicchessia non può in alcun modo essere confuso con il proprio cliente, egli esercita la propria professione e null’altro. Leggiamo quotidianamente lo stupore e la censura nei confronti dell’avvocato che assume la difesa di chi è accusato di reati particolarmente gravi. Abbiamo purtroppo letto in atti amministrativi di grande diffusione mediatica che il semplice fatto che un avvocato, eletto in uffici pubblici, abbia assunto la difesa di cittadini accusati di fare parte della criminalità organizzata viene considerato come segnale di infiltrazione mafiosa nelle amministrazioni locali”.
E ancora: “Siamo sconcertati dal fatto che si diffonda una ‘non cultura’ di tale genere. Il fatto di avere assunto la difesa di un imputato accusato anche di gravissimi reati è cosa assolutamente normale se inquadrata nel rapporto professionale e non può e non deve nel modo più assoluto ingenerare sospetto alcuno”.
L’associazione di avvocati replica così anche alle recenti relazioni prefettizie su Cerignola e Manfredonia, sottoscritte dal Ministero degli Interni e dal governo, che tiravano in ballo alcuni legali, difensori di esponenti di spicco della malavita in provincia di Foggia e allo stesso tempo in posizione di vertice nelle amministrazioni sciolte per mafia. Assessori che nella loro qualità di legali – stando alle carte delle commissioni d’accesso agli atti – hanno anche autorizzato uomini di un noto clan a svolgere attività lavorative durante il periodo di detenzione domiciliare, presso proprietà di coniugi consiglieri comunali. O sindaci-avvocati che presenziano a matrimoni di pluripregiudicati della zona e che confondono la sala d’aspetto del proprio studio legale con quella della casa comunale. O ancora legali che raccolgono messaggi in carcere da noti malviventi per poi informare altri affiliati ai clan.
Il punto non è che l’avvocato venga identificato con il proprio cliente ma che non confonda il suo ruolo con quello di rappresentante istituzionale eletto dal popolo. Su tale questione i commissari hanno chiarito così: “L’attività della Commissione è rivolta ad accertare situazioni oggettive e soggettive, idonee a evidenziare collegamenti, sia diretti sia indiretti, degli ambienti politici e/o amministrativi con la criminalità organizzata e ogni elemento o indizio di condizionamento degli amministratori o anche del personale in servizio presso l’ente locale”.