La femminilità è una maschera. Ed è consegnata al magnifico Coro, interpretato da versioni di donne differenti, dalla saccente ed empatica alla gravida alla svampita alla donna senza figli fino all’ingenua che canta le battute su melodie della musica leggera popolare degli anni Sessanta.
Medea invece è uomo, dominato da pensieri e tattiche maschili. Indossa la maschera del suo personaggio solo alla fine, con il sacrificio dei figli, uccisi affinché non siano uccisi da altri a Corinto e per permettere alla stessa madre di vagare per la Grecia da impunita.
Quella andata in scena ieri al Teatro Giordano e oggi in replica con Franco Branciaroli è una lettura di Medea del 1996 del grande Luca Ronconi, che spiazza gli spettatori abituati al pathos di Pier Paolo Pasolini e alle innumerevoli interpretazioni della tragedia di Euripide degli ultimi decenni o alla forma latina proposta da Seneca. Ronconi e Branciaroli sovvertono il cliché di una Medea proto femminista, trasgredendo le aspettative del pubblico.
“Medea, nella tragedia, è un pensiero, e non va confusa, come spesso accade, con un personaggio. Nella tragedia greca non ci sono dei personaggi ma delle funzioni, dei pensieri che si scontrano. La signora Medea è quindi una funzione. È molto importante il fatto che sia un uomo, non è secondario. Perché è un uomo? Tutto quello che lei dice è maschile. Perché Medea ha paura del ridicolo? Una donna non ha paura del ridicolo. Il ridicolo è il terrore dell’eroe omerico: Achille aveva paura di esser ridicolo. Medea è piena di attributi e atteggiamenti maschili: ad un certo punto dice “Io preferisco combattere che partorire”, una frase molto significativa”, ha detto l’attore in una intervista a Sipario.
Sul palco gli spettatori si ritrovano catapultati in un vecchio cinema rionale del boom economico. Il delitto della moglie di Giasone viene raccontato ad un coro che dorme sulle poltroncine del cinematografo. Mentre Medea con i figli insanguinati tra le braccia fuoriesce da uno schermo muto.
Quello di Medea è un sacrificio, non un delitto. Così lo concepiscono gli dei e così è nella tragedia greca. Secondo il regista quindi il personaggio non può essere una donna, perché una donna che pensa con il suo lato femminile non ucciderebbe mai i suoi figli, li terrebbe con sé fino alla fine, morendo con loro. Non li tratterebbe alla stregua di una arma, di una vendetta. O peggio non li userebbe come dimostrazione della sua ubris, sopravvivendo loro e divenendo per sempre “Medea, colei che ha ucciso i figli”.
Nello spettacolo sono incredibili i cambi di registro usati dall’attore, accompagnato da altri grandissimi interpreti. Il pubblico riesce grazie a Branciaroli a capire ogni intenzione vera e sottaciuta dal personaggio, nascosta anche al testo e alle parole. Come in un caleidoscopio di voci tutte interiori, il personaggio consegna la sua atrocità e il suo disegno.
Al Giordano qualcuno ha lamentato la mancanza di coinvolgimento nella recitazione, ma tutto invece appare ben studiato. L’effetto ben noto ronconiano della straniamento è perfetto e consente di cogliere il messaggio ultimo della tragedia. Da non perdere, per la grande esperienza culturale che ne deriva.