Si è concluso nelle scorse ore l’esame dell’imputato Giuseppe La Piccirella detto “Il professore” o “Pinuccio il ragioniere”, nome storico della malavita di San Severo. L’uomo è a processo dopo il blitz “Ares” del 2019 che smantellò i clan locali. Molti padrini e picciotti sono già stati condannati col rito abbreviato mentre La Piccirella optò per il rito ordinario tuttora in corso nel Tribunale di Foggia.
Il boss – in videoconferenza dal penitenziario di Teramo – ha risposto a tutte le domande e ha negato la sussistenza dell’associazione mafiosa così come intesa dalla procura. Non dice di essere innocente “per partito preso” ma ha dato una spiegazione alternativa ad ogni condotta e accusa affermando che “ormai a San Severo si utilizzava il mio nome per incutere maggiore timore”. In buona sostanza se qualcuno si recava a fare un’estorsione dicendo “di lavorare” o essere “il collaboratore” di La Piccirella avrebbe ottenuto maggiore “rispetto”. “Una mafiosità che mi viene attribuita dagli altri, non sono di certo io a dire loro di utilizzare il mio nome”.
L’imputato ha respinto con forza le accuse di estorsione: “Non ci sono episodi che mi riguardano né consegne di denaro alla mia persona”. Stesso discorso per i fatti di sangue di cui è sospettato: “Quando ci fu l’agguato a Michele Russi stavo a Roma”. A parere di La Piccirella molte vicende che lo tirano in ballo sarebbero emerse da alcune conversazioni captate tra il boss Franco Nardino detto “Kojak” e tale Vistola “che mi attribuiscono una serie di estorsioni fatte a questo o quest’altro soggetto”.
Ha dato una spiegazione anche alla frase da lui pronunciata ed intercettata “il paese è nostro”. La Piccirella ha affermato di averla utilizzata nel commentare gli attentati dinamitardi avvenuti a San Severo dove le bombe avevano fatto saltare in aria alcune attività commerciali. “Ritenevo gli autori degli stupidi che stavano rovinando l’immagine del nostro paese, tutto qui”.
Nel lungo esame a cui si è sottoposto, La Piccirella ha affrontato anche le accuse di droga negando ogni addebito: “Mi dite che sono andato dagli albanesi a chiedere ‘il punto’ per lo spaccio, ma io in realtà, quando ho saputo che anche loro usavano il mio nome per garantirsi la tranquillità, sono andato a dirli che avrebbero dovuto pagarmi per nominarmi”.
Poi ha concluso con una considerazione: “So che io potrei non essere credibile, ho la condanna scritta. In passato ho sempre pagato per le mie colpe, ho fatto 24 anni di carcere ma stavolta non mi sento colpevole di quello che mi attribuite. Per le uniche estorsioni che ho fatto ho risarcito 12mila euro alle persone offese”. Riferimento al racket delle slot machine per cui venne arrestato nel 2017.
Dopo l’esame dell’imputato è stato sentito Colanero detto “Cotechino”: il teste ha negato ogni addebito relativo ad una presunta estorsione. Ha detto non aver mai parlato con La Piccirella, Vistola o altri. “L’estorsione per permettermi di mandare avanti attività illecite è impossibile, il mio ultimo arresto risale almeno al 2010. Qualcuno in paese inventa tutto”.
Il processo al boss va avanti spedito, nei prossimi giorni è prevista una nuova udienza: saranno sentiti tre testi tra cui presunti complici di La Piccirella e il figlio di Franco Nardino, sospettato di essere un acquirente di droga dall’imputato. La partita si gioca tra la Dda di Bari rappresentata dalla pm Bruna Manganelli grande esperta di mafia foggiana e l’avvocato Luigi Marinelli legale del pregiudicato sanseverese.
“Il professore” è accusato di mafia, traffico di droga, 5 imputazioni di spaccio, duplice tentato omicidio, 3 estorsioni, 4 tentativi di estorsione, gambizzazione, 9 imputazioni di armi, 3 di ricettazione e una di furto. L’imputato segue il processo dal carcere di Teramo dove è detenuto in regime di Alta Sicurezza. (In alto, La Piccirella; sullo sfondo un’immagine tratta dal video del blitz “Ares”)
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