“L’episodio mi ha profondamente turbato ma oggi sono più che mai determinato a continuare il mio lavoro alla ricerca della verità, in un territorio martoriato dalla mafia”. Così Francesco Pesante, direttore de l’Immediato ha commentato i due giorni “surreali” vissuti a Foggia dopo il sequestro del cellulare. Il giornalista è accusato di ricettazione per aver pubblicato il video dell’omicidio di Alessandro Scrocco, ucciso davanti al carcere dauno lo scorso 17 maggio. Il filmato è stato pubblicato da tutte le maggiori testate nazionali e locali. La Procura ha aperto un procedimento nei confronti di Pesante e di due agenti della Polizia di Stato – ignoti al cronista – accusati di rivelazione del segreto d’ufficio.
“Sono stato contattato dalla squadra mobile per sommarie informazioni in merito al video e mi sono ritrovato con il cellulare sequestrato e un’accusa di ricettazione. Il cellulare mi è stato restituito solo stamattina, dopo due giorni surreali. Una situazione kafkiana. Forse la pm non ha tenuto conto che noi giornalisti abbiamo il dovere di tutelare le nostre fonti e rispettare il segreto professionale”.
Poi conclude: “Ringrazio i colleghi e il sindacato per la solidarietà. Spiace constatare il silenzio della politica, immagino dovuto a mere questioni di opportunità. Spero che questa mia disavventura possa servire affinché altri colleghi non si trovino nella stessa situazione. Nessun altro giornalista deve subire pressioni per aver rispettato le fonti”.
La pm Rosa Pensa e il procuratore capo Ludovico Vaccaro
Il vademecum per i giornalisti
Abbiamo chiesto all’avvocato Michele Vaira, difensore di Pesante e grande esperto della materia, il suo punto di vista sulla vicenda e, più in generale, sui diritti e i doveri processuali dei giornalisti.
L’indagine nasce dalla divulgazione del video di un omicidio ripreso dalle telecamere di sorveglianza del carcere di Foggia.
Nessun rimprovero, sul punto, può addebitarsi al giornalista che, in quanto tale, ha come unica finalità quella di informare su fatti di interesse pubblico. E un omicidio, ripreso in diretta, è un esempio lampante di ciò che può e deve essere pubblicato. A qualsiasi costo.
Se un giornalista avesse la disponibilità di una notizia tale da far scatenare la terza guerra mondiale, avrebbe il dovere morale di pubblicarla. La sua etica non coincide con quella di chi persegue reati.
Non c’è dubbio che tale diffusione abbia seriamente nuociuto all’indagine, e le ragioni sono talmente evidenti da non doverle spiegare.
Ed è per questo che la PM titolare sta cercando con grande tenacia di accertarne le responsabilità.
Il fine, però, non giustifica i mezzi, che a mio parere sono radicalmente in contrasto con il diritto all’informazione, che è tutelato ai massimi livelli, anche di rango sovranazionale.
Il reato che si contesta al giornalista è quello di “ricettazione” (648 c.p., che punisce chi riceve cose oggetto di un reato): la diffusione del video è stata qualificata quale rivelazione di segreti di ufficio, che costituisce il presupposto della ricettazione.
In questo caso, il direttore della testata è stato convocato, pur essendo già indagato, quale mera persona informata sui fatti, per obbligarlo a rispondere secondo verità (l’indagato, come noto, può avvalersi dell’assistenza di un difensore e della facoltà di non rispondere).
Avendo egli opposto, comunque, il suo dovere di tutela delle fonti, è stato notificato il decreto di sequestro dello smartphone.
Tutto ciò in violazione, a mio parere, di diverse norme sostanziali e processuali, così come costantemente interpretate dalla giurisprudenza.
Il diritto di cronaca è una esimente che rende non punibile anche il reato di ricettazione, pertanto l’indagine nei confronti del giornalista non avrebbe dovuto nemmeno essere iscritta.
Il giornalista, poi, a cui era stato paventato il sequestro del telefono, ha anche mostrato di aver ricevuto il video su una chat whatsapp dalla quale si evinceva il badge “inoltrato molte volte”.
La sua unica colpa è stata quella di essere stato il primo operatore dell’informazione a renderla pubblica (anche se in realtà era ormai virale).
Prima ancora che in contrasto con le norme a tutela dei giornalisti, il sequestro è apparso decisamente ultroneo.
Il giorno successivo, va anche precisato, la Procura di Foggia, accogliendo la mia richiesta, ha limitato l’accertamento sul telefono del giornalista alla sola messaggistica relativa alla ricezione del video, restituendo immediatamente il telefono e disponendo la distruzione dei dati raccolti.
Vaira
1. In caso di convocazione in procura o presso la polizia giudiziaria: è sempre opportuno pretendere la convocazione scritta, che contenga i motivi della convocazione e la specificazione sulle modalità di ascolto (in qualità di indagato o persona informata sui fatti). Rifiutare, in ogni caso, convocazioni “telefoniche”.
Alle domande sulle fonti il giornalista (sia professionista che pubblicista) può sempre opporre il segreto professionale, ai sensi dell’art. 200 c.p.p. (analogamente agli avvocati o i sacerdoti e altre categorie professionali).
Eventuali pressioni o “minacce” di denunce di favoreggiamento non devono in alcun modo intimorire: la giurisprudenza sulla tutela delle fonti (specialmente delle corti superiori e della CEDU) è assolutamente granitica.
Se, ascoltati in qualità di testimoni, si ha anche solo l’impressione che una domanda possa comportare una risposta autoincriminatoria, è opportuno astenersi dalla risposta, chiedendo l’intervento di un avvocato.
Nel caso in cui, durante l’esame, si passa dalla qualità di testimoni a quella di indagati, la PG interrompe il verbale, notificando l’informazione di garanzia. In quel caso, è fondamentale interrompere qualsiasi tipo di conversazione, anche informale, e consultarsi con il proprio avvocato di fiducia. Se non è immediatamente reperibile o quantomeno raggiungibile telefonicamente, interrompere la sessione e chiedere un aggiornamento dell’incontro.
In ogni caso, è fortemente sconsigliato firmare verbali di dichiarazioni “spontanee”.
2. In caso di testimonianza in Tribunale: solo il Giudice (e non il PM o la PG), in particolari circostanze, rigidamente previste dalla giurisprudenza, può obbligare il giornalista a rivelare la fonte della notizia.
È opportuno, in tal caso, consultarsi previamente con il proprio avvocato di fiducia.
3. In caso di ricerca di documenti presso le redazioni o sequestro del cellulare: Le perquisizioni presso le redazioni sono altamente stigmatizzate nelle pronunce della CEDU, “le perquisizioni compromettono il lavoro del reporter e quindi il suo diritto alla libertà di espressione e anche quello di ogni individuo a ricevere informazioni”.
Nel caso in cui l’autorità inquirente chieda l’esibizione al giornalista di atti o documenti o disponga il sequestro di materiale informatico o telematico (come un pc o uno smartphone) è possibile dichiarare per iscritto (eventualmente a mezzo pec) che, ai sensi dell’art. 256 c.p.p., i dati di cui si chiede l’acquisizione o il contenuto dei dispositivi sono coperti dal segreto professionale.