
“Questa non è letteratura, sono cose che ho visto”. E ai presenti è parso davvero di assistere alle scene proiettate da quel racconto sussurrato come si fa quando si srotolano i ricordi più intimi. Il dialogo con Caterina Chinnici, figlia del giudice Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia nei primi anni Ottanta, ha toccato forse il momento più alto della Fiera del Libro di Cerignola. Lo suggeriva l’atmosfera che si respirava tra la platea che ieri sera si è raccolta attorno alla rievocazione delle angosce di una famiglia che ha combattuto la mafia in trincea, raccontate nelle pagine di “È così lieve il tuo bacio sulla fronte (Mondadori, 2013)”, il libro di Caterina Chinnici, magistrato come suo padre. Una testimonianza che al profilo professionale del padre del pool antimafia restituisce il suo spessore umano, fatto di gesti semplici e paterni, come quel bacio rassicurante sulla fronte e le passeggiate mano nella mano con la figlia. Un papà presente nei ricordi della primogenita.
“Ricordo le passeggiate con la mia manina nella mano rassicurante di papà. A Partanna lo salutavano con affetto. Era un riferimento per i cittadini del paese, gli volevano bene”, ha raccontato il giudice Chinnici durante la chiacchierata con ilgiornalista di Repubblica, Mario Valentino. Poi il racconto privato si intreccia alle vicende note, il primo maxiprocesso alla mafia e la nascita del pool a Palermo, che hanno rivoluzionato la cultura dell’attività giudiziaria e hanno minato la pace domestica. Il ritratto professionale del padre agli occhi della figlia appare sempre connotato dai tratti caratteriali che hanno in qualche maniera influenzato l’attività di magistrato, quel senso di giustizia che ha permeato l’educazione familiare. “Si svegliava col caffè delle 5, poi ci preparava la colazione alle 7 e la sua giornata di lavoro era già iniziata. Non si fermava alla superficialità delle cose, andava oltre -ha proseguito il magistrato eparlamentare europeo- cominciò ad affondare la sua attività di indagine ben oltre il livello della normale attività giudiziaria e cominciò a venir fuori quello che non era semplice delinquenza. All’interno dell’ufficio istruzione dei processi mio padre si rese conto del legame tra i vari processi e comiciò a pensare in maniera diversa, a uno scambio tra giudici e nacqua il pool con l’ingresso di Falcone e Borsellino. Noi giudici, e lo dico da magistrato, siamo molto individualisti, perché siamo indipendenti e questa indipendenza ci porta a lavorare da soli. Non era quindi facile accettare questa idea. Fu un momento di svolta sia per la mutazione della strategia di approccio, sia perché si finì nel mirino della vendetta del fenomeno mafioso”.
Tutto cominciò dopo il processo del 1970, con le prime minacce e telefonate nel cuore della notte. Cambia l’atmosfera in casa. Per la prima volta a Rocco Chinnici viene assegnato l’uomo di tutela, all’epoca così si chiamava, Salvatore Bartolotta, l’uomo della sua scorta ucciso assieme ai suoi colleghi nell’attentato in cui ha perso la vita il magistrato il 29 Luglio 1983, in via Pipitone Federico, a Palermo, quando un auto riempita di tritolo venne fatta esplodere, causando la morte del magistrato Chinnici. “A casa nostra si insinua da quel momento l’ansia per il lavoro di mio padre”. Le minacce aumentano quando si fa intensa e sofisticata l’attività all’interno del Palazzo di Giustizia, dove si comincia a lavorare a stretto contatto con la polizia giudiziaria. “Mio padre fu precursore anche in questo, perchè poi, nel 1989, il nuovo codice di procedura penale istituzionalizza la sua intuizione. Il pool l’ho visto nascere -ha ricordato con commosso orgoglio- perché ero nell’ufficio istruzione come uditore nell’Ottanta e avevo Borsellino come guida. Era come se fosse mio padre stesso a farmi da tutor, perché si somigliavano molto. eravamo quindi a stretto contatto, ma c’era sempre un momento in cui mio padre, Falcone e Borsellino, si isolavano nell’angolo più discreto dell’ufficio per parlare delle indagini che a nessuno piaceva che si facessero, perché era qualcosa di troppo innovativo, e mi allontanavano con un sorriso”.
A certificare la pericolosità del lavoro del padre arrivò la telefonata “più spaventosa di tutte”, sempre a notte fonda. “Il nostro tribunale l’ha condannata a morte, dissero con un accento marcato spacciandosi per avvocato. Da quella telefonata cambiò profondamente l’atmosfera di casa nostra”. Un clima che preoccupava il magistrato, per i rischi a cui costringeva la sua famiglia che non ha mai avvertito il sacrificio del coraggio. Un insegnamento privato che il Chinnici padre ha lasciato in eredità ai figli e che l’uomo magistrato ha trasferito nella sua attività tracciando “una strada senza ritorno”. “Da quel percorso segnato da mio padre non si potrà tornare indietro. Ha cambiato la cultura giudiziaria, il lavorare in gruppo, con quel pool che ha portato alla direzione antimafia e all’istituzione oggi della procura europea”.