La Puglia che negli anni ’90 guardava a Milano non era più una Puglia d’emigrazione o forse lo era ancora, ma non d’una emigrazione di un tempo, quella legata agli anni del boom economico, che spesso faceva guardare al Nord come a un eldorado immaginifico e magari chi invece viveva in quell’osservatorio privilegiato, che era la Milano di quegli anni, viaggiava alla scoperta di un mondo altro, forse anche più misero, come abbiamo letto nell’autobiografia di Augusto Bianchi Rizzi, perché “niente è come sembra”, neanche le certezze più granitiche che burattini piccoli piccoli credono di possedere. Ma gli intellettuali pugliesi che guardavano a Milano negli anni ’90, e quelli che lo hanno fatto poi dieci anni dopo, fuggivano da un teatro troppo legato a un mondo contadino che ormai si era sfaldato, sfuggivano al teatro pieno di miti della Magna Grecia, che però sembravano simboli vuoti e privi di contenuti in quella realtà nuova che premeva dall’Adriatico dirimpettaio e sbatteva alle porte.
Gli intellettuali pugliesi queste sensazioni le sentivano bene, le vivevano con le immagini della Vlora non solo al telegiornale, ma affacciandosi alle finestre della Rai di via Dalmazia di Bari. E occorrevano parole nuove per raccontare questa realtà e fu con questo spirito che molti, alcuni negli anni ’90, altri nel 2000, si rivolsero ai giovedì milanesi di Augusto Bianchi Rizzi, avvocato, scrittore e drammaturgo (morto a ottobre 2014) che aveva saputo raccontare quell’Albania sperimentata in famiglia negli anni del fascismo e, anche per questo, desideroso di conoscere la nuova Albania, quella degli scrittori come Dritero Agolli, il più grande poeta albanese, quella del giovane editore Piro Misha, quella di Bestinik Moustafai. Avevamo imparato a conoscere la terra albanese grazie agli scritti di Raffaele Nigro, ne avevamo sperimentato i viaggi sulla nostra pelle, sentendo il femminismo che si iniziava a respirare a Tirana. Per questo i giovani drammaturghi pugliesi, fra cui Cosimo Damiano Damato e altri, che poi si sarebbero riuniti intorno al teatro popolare di Moni Ovadia, avevano bisogno delle parole nuove di chi aveva vissuto la poesia della linea lombarda, la poesia di area metropolitana che anni prima si era raccolta intorno a Crovi.
Per questo i giovedì di Augusto Bianchi Rizzi erano necessari agli autori pugliesi, perché erano animati da passioni e visionarietà, da un gusto per quello sguardo marxista che non si ritrovava nei salotti romani, per quella voglia di azione che al Sud sembrava sopita, ma che gli scrittori cercavano costantemente, ritrovandola nelle eleganti parole di AlbaNaia, di recente portato in scena a Milano, dopo la scomparsa del suo autore. Augusto Bianchi Rizzi, in quell’agosto del 1991, l’anno dopo l’uscita del suo romanzo, voleva sapere cosa stesse accadendo a quei corpi ammassati in una nave che scorreva parallela ai tradizionali traghetti vacanzieri che partono da Bari per la Grecia. Fu uno scambio di racconti in seguito fra chi aveva letto la nuova Albania in Madre Albania di Dritero Agolli e Bianchi Rizzi, il quale ne aveva apprezzato quell’ironia pungente, sapendo mettere in luce il fatto che non vi era alcuna contraddizione fra l’amara voglia di reagire del poeta e il suo inneggiare al Partito del regime, poiché tutto il comunismo dell’Est era stato come una di quelle “storie d’amore che non si rivelano all’inizio, che sembrano fatte di amarezza e indifferenza, ma poi a mano a mano ribaltano la loro condizione, mettendo in luce che quello che si era visto sino a quel momento non era che la caverna di Platone”. Nessun drammaturgo o poeta o scrittore pugliese che abbia conosciuto quel milanese dal sorriso ironico può dire di non aver modificato la sua scrittura, perché quegli incontri del giovedì servirono ad alcuni a trovare le parole per una realtà mista di un mondo in disfacimento e un nuovo mondo industriale in arrivo, senza tuttavia l’esaltazione che vi si ritrovava in altri autori di area lombarda. Soltanto dieci anni dopo quei giovedì, soltanto dopo AlbaNaia di Bianchi Rizzi e Diario Mediterraneo di Raffaele Nigro e dopo l’incontro con Matvejevic maturò un’idea sull’Est e una poesia dal titolo “ A margine di Albania”: […] ‘sto mare non sa esser barriera per il dolore/ del mio decadimento né / per la tua società che / esce da un letargo e toglie/ l’orlo dalle gonne e dai pensieri/ prende pantaloni in saldo a tutti e / lascia scrivere/ e t’importa mentre scrivi di noi/ mentre in limine di forza / mi sento solo rimbambito/forse la tua bellezza / di peccato originale/ forse il campo petroso/ di nascente Albania/.
E se la Puglia d’arte ha qualche parola in più e se Milano conosce di più l’Est e gli approdi alle terre meridionali, quella Milano senza deliri razzisti, è grazie a qualche giovedì di quelli di Augusto Bianchi Rizzi.