Occhi lucidi senza età. Piangono i giovani che hanno preso posto sotto l’altare dove guardano con infinita tristezza la bara del loro pastore, don Michele de Paolis. Piangono gli anziani tra i banchi. Ci sono tutti a dare l’ultimo saluto al prete di Emmaus che tormentava i palazzi del potere per aiutare i più poveri, gli emarginati, gli ultimi. Forse non basterà l’intera diocesi sacerdotale listata a lutto a colmare un vuoto così grande come quello lasciato dal padre di Emmaus che, nella foto con papa Francesco, porta la didascalia “uno di noi”.
Nella messa celebrata dall’arcivescovo Tamburrino, il salesiano è stato ricordato dai suoi amici nel suo credo e nel suo testamento spirituale. “Ero povero e affranto e mi avete dato da mangiare; il Samaritano andò da Gerico a Gerusalemme, lui da Gerico a Emmaus ha speso la sua vita; non è mai tardi per fare l’esperienza del risorto”. Queste le tre vie in cui è stata sintetizzata la sua vita. Chi ne ha condiviso il percorso di fede e la missione dice: “Abbiamo perso un padre, un fratello, un amico”. Anche “un nonno”, il nonno di quei giovani che l’hanno assistito negli ultimi giorni di vita e che, insieme a tanti altri, la comunità di Emmaus ha ringraziato.
Ma lui era non solo un pastore, nella lettura di chi ne riceve l’eredità era “un profeta che sapeva leggere il quotidiano e guardare le prospettive”. Si faranno carico di questa eredità le tante colonne che hanno contribuito ad innalzare quella famiglia, ma senza di lui sarà certo più difficile. Per questo chiedono – dopo una celebrazione che ha fissato sei punti di distribuzione dell’eucarestia, tanto era piena la chiesa- il sostegno a tutti: “Oggi ci sentiamo orfani”.
Il governatore Nichi Vendola, l’europarlamentare Elena Gentile, il prefetto Luisa Latella, il sindaco Franco Landella, consiglieri regionali, esponenti di associazioni e il gagliardetto della città di Foggia a lato dell’altare insieme ai banchi dei sacerdoti che hanno concelebrato. Per fare solo un cenno a quanti l’hanno onorato nel giorno dell’addio. E’ stata la sua comunità a cantare per lui, i suoi segaci a raccontare del suo testamento spirituale: “Usciamo dai templi e calchiamo le periferie, credo nel Cristo che garantisce laicità e chiede fiducia e affidamento, nel Dio presente nella nostra storia”. A un’assemblea affranta Marino, uno dei capisaldi della comunità, lancia un messaggio breve che raccoglie un lungo applauso mentre i sacerdoti escono dalla Chiesa: “Abbiamo celebrato l’eucarestia non per don Michele ma con don Michele”.
Poi la richiesta a Nichi Vendola, suo grande amico, di fare un intervento a nome di tutti, a rappresentare quelle istituzioni la cui pazienza don Michele ha spesso messo a dura prova. Vendola racconta le telefonate notturne con lui, quando le ultime volte gli diceva “questo è il mio canto del cigno” e lui rispondeva “no, siamo aggrappati alla tua vita”. Il governatore parla di accoglienza e della capacità di don Michele di “attraversare i luoghi del potere per seminare frutti buoni”. Si commuove quando immagina il suo arrivo lassù: “Ti riconosceranno subito perché un angelo lo eri già in terra”. Ci vuole circa mezz’ora perché il feretro raggiunga la folla all’esterno della chiesa, centinaia di persone che, in silenzio, attendono il loro pastore.