Sergio Fontana, amministratore di Farmalabor e presidente di Confindustria Puglia, analizza gli scenari economici della regione, evidenziando punti di forza e debolezza di una regione locomotiva del Sud ma in forte ritardo nelle infrastrutture rispetto al Nord. Innovazione, ricerca e internazionalizzazione sono i cardini per uscire dalla lunghissima crisi scaturita dall’instabilità globale e dagli insostenibili tassi di interesse. Sulle ingerenze della criminalità organizzata, dice: “Dal fallimento si può ripartire, usura e logiche criminali sono la morte definitiva”.
Dottor Fontana, l’ultimo report della Banca d’Italia evidenzia diverse criticità anche in Puglia. Come siamo messi rispetto al resto del Paese?
Abbiamo luci e ombre. L’unica certezza è l’incertezza in cui ci troviamo ad operare. Dalla crisi Lehman Brothers alle guerre attuali, fino ai tassi di interesse schizzati ai massimi, non abbiamo mai avuto uno scenario favorevole allo sviluppo delle imprese. Siamo abituati a vivere in mezzo ai problemi.
Qual è la criticità maggiore? Bastano le politiche pubbliche di sostegno o servirebbe altro?
L’aumento dei tassi di interesse è l’elemento che ci preoccupa maggiormente, i nuovi investimenti sono fermi al palo, si limitano agli imprenditori che già li avevano programmati da tempo. Gli altri, nell’incertezza, rimandano. Per di più, la Regione Puglia in questa fase è ferma. La vecchia programmazione 2014-2020 è chiusa, mentre la nuova programmazione, 2021-2027, non è stata ancora aperta. Questo ritardo, tuttavia, è al contempo un problema e un’opportunità: se riparte subito possiamo tornare ad investire con il supporto della Regione.
A proposito, come siamo messi su Pnrr e Fondo di sviluppo e coesione?
C’è difficoltà nel mettere a terra questi fondi, nello spenderli, bene, entro il 2026. Il FSC prevede che tutta la disponibilità debba esser spesa per diminuire il divario Nord-Sud. Si tratta di risorse vincolate e divise tra Regioni e Stato, per le quali bisogna essere rigorosi. Detto questo, dico che a me non fa piacere essere in una regione ‘obiettivo 1’, perché significa che siamo indietro. Scontiamo un ritardo su tutto, sulle infrastrutture materiali e immateriali, sulla scuola, sugli asili nido, sulle scuole, sugli alloggi per universitari. Oltre che sui trasporti. Un viaggio Lecce-Milano è un viaggio della speranza. Non abbiamo l’alta velocità per esempio. E la responsabilità è della politica.
La Puglia però sta messa meglio rispetto a diverse aree del Mezzogiorno. Quali settori sono in difficoltà o arretrano addirittura?
Anche qui c’è una situazione di chiaroscuro. Abbiamo eccellenze che viaggiano sempre bene. Tra le 2200 imprese di Confindustria, spicca chi ha investito in innovazione, ricerca e internazionalizzazione. Ci sono realtà, anche in settori maturi, come i molini, che hanno ruoli di leadership internazionale. Hanno saputo innovare processi e prodotto. A dimostrazione che tutti i settori possono riuscirci. È l’unica possibilità che abbiamo per competere. L’automotive, invece, rappresentata in Puglia da importanti aziende presenti a Foggia e Bari, potrebbe avere problemi per la cosiddetta rivoluzione verde, al momento più ideologica che ambientale.
La crisi della produzione d’acciaio è l’altro tema delle ultime settimane. Nella regione segnata dall’Ilva, si può sperimentare la produzione green?
Sono favorevole all’acciaio verde, però ci devono essere dei dazi per cui tutta l’Europa deve utilizzare gli stessi standard. Se produco un acciaio che costa 10 e altre nazioni producono un acciaio inquinate che costa 1, come faccio a stare sul mercato? Serve più Europa, con un approccio federale. A livello locale si può fare poco.

De Bortoli ha citato Buzzati per dire che l’Ilva di Taranto è la dimostrazione che “siamo il paese in cui non si può fare impresa”. Conviene?
Siamo il popolo dei “No Tap”. Ma tutti vogliono avere il gas a casa. La guerra in Ucraina ci ha messo di fronte alla difficoltà di reperimento energetico e alla carenza di un piano industriale nazionale. Vogliamo la vita bucolica? Dovremmo saper rinunciare a cellulari, internet e tutto il resto però…
Tornando alla difficoltà di accesso al credito per le imprese, ritiene possa essere uno scenario che favorisce ulteriormente l’infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto economico dei nostri territori?
Il problema della criminalità organizzata e dell’usura è un problema serio. Parlando della provincia di Foggia e della Bat, dico che abbiamo una squadra Stato competente e adeguata, ma non può bastare. Serve innanzitutto la consapevolezza che è meglio fallire piuttosto che finire in mano agli strozzini: dal fallimento ci si può riprendere, da cravattari e dalla criminalità in generale no. Sono contrario anche a condoni e pace fiscale, chi non paga le tasse, tiene in nero i lavoratori, riesce ad avere un vantaggio nella concorrenza ma è un criminale.
Al netto della repressione, come si può intervenire?
Innanzitutto con i centri antiracket. Chi è già sotto schiaffo, girando nel girone dantesco e mortale, può rivolgersi allo Stato, alle prefetture. Gli altri possono far ricorso a tutte le misure disponibili, dalla gestione della crisi d’impresa ai concordati preventivi, fino alla chiusura dell’impresa per ripartire con una nuova attività. Servono solo buoni consulenti. Il fallimento in Italia è visto in maniera totalmente negativa, ma non è così. Basti pensare al sistema americano e all’impero Ford, nato da un fallimento, per capire che lo stop ad una attività può essere una fase superabile. Non è la cosa peggiore del mondo…
Quale sarebbe la peggiore?
Innanzitutto gli infortuni sul lavoro. Su questo stiamo spingendo sulla certificazione aziendale, capace di ridurre il rischio fino al 46%. E poi l’idea di rivolgersi alla criminalità organizzata per ottenere un salvagente cui aggrapparsi. Ma quello è un piombo che porta inevitabilmente sul fondo.
In effetti la ratio dell’interdittiva antimafia è proprio questa, evitare di essere risucchiati dalle sabbie mobili…
Certamente. Se c’è volontà, lo Stato è in grado di dare una mano a chi è in difficoltà.
Secondo lei sta cambiando il clima e la cultura degli imprenditori dopo tutte le azioni repressive concluse dallo Stato negli ultimi anni?
C’è un po’ di aria nuova. C’è soprattutto una maggiore consapevolezza della divisione, netta, tra le aree di legalità e di illegalità. Confindustria Puglia ha dato un segnale in questo senso convocando la prima assemblea nella sede della Gdf a Bari. Un modo per dire da che parte stiamo.
Confindustria riesce a monitorare e governare questa complessità?
A Bari-Bat abbiamo un numero maggiore di associati con un peso importante, valutato sul numero dei dipendenti. Abbiamo un gettito contributivo maggiore rispetto ad altri contesti. Va detto che Confindustria é attrattiva solo se offre servizi. Servono imprenditori seri e validi, non chi si reca al dopolavoro, con tutto il rispetto. Io sottraggo tempo alle mie imprese per difendere gli interessi della parte datoriale e, dunque, dei lavoratori. Facciamo lobby in senso anglosassone. Portiamo avanti interessi leciti con il decisore politico. Dalla Puglia è partita così la decontribuzione Sud e l’idea di Zes unica portata avanti da Fitto. Tutto questo, assieme ad una vera cultura d’impresa, può segnare il passo dell’economia criminale.
E a Foggia?
A Foggia c’è una situazione particolare. Ci sono buone opportunità di rilancio. Dipende molto dagli imprenditori del territorio e dalla loro volontà di puntare ad una Confindustria seria, sana e con i conti in ordine. Ma la miglior forma di autorità è l’esempio. Se le cose vanno bene, vuol dire che il presidente di Confindustria ha fatto le cose per bene. In alcune aree tuttavia ci sono ampi margini di miglioramento. A Foggia ci sono imprenditori che non sono secondi a nessuno sul territorio regionale e nazionale, penso ai settori della sanità e dei trasporti. Sono questi gli imprenditori che io voglio come compagni di cordata per creare sviluppo. Perchè lo sviluppo lo può fare solo l’impresa e il lavoro, non un decreto per l’abolizione della povertà con il reddito di cittadinanza. Quello significa buttare i soldi. Il Sud non ha bisogno di assistenzialismo, ma deve poter lavorare. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, non sul reddito di cittadinanza. Solo così potremmo ripagare il debito dello Stato e avere servizi adeguati per i cittadini e le imprese.
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