La quarta mafia cancella i volti e la memoria, traffica droga, chiede il pizzo ma è anche in grado di intessere rapporti con la politica e il mondo dell’imprenditoria fino a condizionare le pubbliche amministrazioni. Ne ha parlato in più occasioni, anche a Foggia, il magistrato Giuseppe Gatti, ex pm della Dda di Bari oggi in servizio alla Direzione nazionale antimafia di Roma. Forse nessuno meglio di lui può descrivere la quarta mafia che oggi è al centro di una polemica cittadina per via di alcuni negazionisti che sminuiscono il fenomeno veicolando messaggi pericolosi e fuorvianti.
“La quarta mafia è in grado di fare rete e squadra – disse Gatti in uno dei numerosi eventi antimafia in Capitanata -. Un esempio è dato dalla collaborazione tra foggiani e garganici ma sono davvero tante le alleanze tuttora attive in Capitanata. L’organizzazione è militare, compatta, feroce, salda sul territorio, ma, allo stesso modo, interagisce e ragiona con la logica della rete, quindi, fa alleanze. C’è l’alleanza dei clan della montagna con quelli della città; l’alleanza con i Casalesi per quanto riguarda il traffico dei rifiuti; le operazioni di infiltrazione nei vari settori nevralgici dell’economia, nel mondo dell’agricoltura: la cosiddetta ‘agromafia foggiana’. Alcune indagini hanno dimostrato le infiltrazioni della mafia foggiana nel vitivinicolo, addirittura il coinvolgimento nelle imprese del nord Italia. E poi le infiltrazioni nel settore del pomodoro, nel settore del grano; l’aggressione al turismo, altro grande polo dell’economia, per non parlare dell’edilizia, dove oramai sono storiche oltre che documentate anche dalla ‘indagine Corona’, già riconosciuta in via definitiva dalla Corte di Cassazione, le estorsioni ai grandi circuiti dell’imprenditoria edile del Foggiano”.
A parere di Gatti si è quindi davanti ad una “mafia che ha una capacità di guardare oltre, di cercare di aprirsi, per esempio al narcotraffico internazionale con le organizzazioni straniere. È una mafia che sta crescendo, che sta facendo importantissimi salti di qualità, che si sta sempre più caratterizzando come ‘mafia degli affari’ e che sta cercando di ampliare i propri orizzonti. Per tutti questi motivi diventa un’esigenza comune spezzare la ‘dipendenza dalla mafia’ diffusa in Capitanata e colmare il vuoto di comunità, sviluppando la legalità del Noi. Quel Noi che deve diventare la nostra comune battaglia”.
Le interdittive antimafia e il caso D’Alba
Un’informazione ingannevole, diffusa ad arte in questi giorni, riguarda lo strumento dell’interdittiva antimafia che non è pensata come “un ergastolo” per le aziende, come sostiene qualcuno, ma come mezzo salvifico e di bonifica. Ma andiamo per gradi. Per la notoria e consolidata normativa del settore, attestata anche dal Consiglio di Stato, “il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere ad un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere ‘più probabile che non’, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa”.
E ancora: “Ai fini dell’adozione dell’interdittiva che, come si è detto, costituisce una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e interdittiva, non è necessaria una prova che vada al di là di ogni ragionevole dubbio, essendo sufficiente che gli elementi effettivamente riscontrati, valutati nel loro complesso e non atomisticamente, forniscano un quadro d’insieme in base al quale non sia illogico formulare un giudizio prognostico negativo, latamente discrezionale. Il diniego di iscrizione nella white list non presuppone infatti la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste; tali elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri”.
Si gettano ombre sull’interdittiva a “Tre Fiammelle”, la società di Michele D’Alba. “L’interdittiva fa riferimento a episodi di cinque anni fa, perché arriva solo ora?”, il quesito posto da un giornale locale che ha intrapreso una linea negazionista pur di difendere l’imprenditore amico: “L’interdittiva a D’Alba è una follia”.
Ma riguardo alle lungaggini del provvedimento, è sempre il Consiglio di Stato a fare chiarezza evidenziando che i tempi non sono quasi mai brevi: “Va fatto cenno all’iter che porta all’iscrizione dell’impresa nella white list, anche in considerazione della ormai cronica carenza di organico nelle prefetture nonché della mancanza di una rete nazionale e di una gestione uniforme degli accertamenti. Laddove all’avvio delle verifiche si riscontri un fumus di infiltrazioni criminali, che richiedono ulteriori approfondimenti, il procedimento rallenterà e potrebbe non arrivare a definizione nel tempo normativamente stabilito. Le imprese, pertanto, sulla base della domanda presentata per l’iscrizione o per il rinnovo, potranno aggiudicarsi appalti ed iniziare ad operare, salva la previsione della interruzione dei rapporti nel caso di successivo accertamento della mancanza di requisiti. Ciò, tuttavia, accadrà solo dopo un certo tempo, sicuramente non breve, con evidente compromissione delle finalità perseguite e possibili danni alla stazione appaltante“. Più in generale, sarebbe opportuno ricordare che l’articolo 96 del Codice antimafia ha istituito la Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia (Bdna), presso il Ministero dell’Interno. Uno strumento prezioso per rendere maggiormente efficiente l’azione dello Stato contro la criminalità organizzata: nella banca dati sono infatti contenute le comunicazioni e le informazioni antimafia, sia liberatorie che interdittive, rilasciate dalle diverse prefetture, le quali provvedono all’inserimento delle informazioni antimafia (tutte, non solo le interdittive). Il sistema si interfaccia con il Centro elaborazione dati, nel quale vengono incrociate le informazioni della Dia (Direzione investigativa antimafia) e delle Camere di commercio. Un aspetto importante è che la Bdna non è pubblica ed è consultabile solo dai soggetti autorizzati (amministrazioni pubbliche, enti pubblici, aziende vigilate dallo Stato), previo accreditamento.
Gatto e topo
Alla cooperativa foggiana è contestato dalla Prefettura anche il tentativo di self cleaning “tardivo”, con la scelta di mettere all’interno della società militari in pensione. “La modalità con cui la società Tre Fiammelle ha effettuato le misure self cleaning, subito dopo la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’adozione di un provvedimento interdittivo, non consente allo stato di ritenere che la riorganizzazione societaria abbia determinato un’effettiva diminuzione del ‘peso’ dell’ex rappresentante D’Alba sulla gestione degli affari societari, anche in considerazione del fatto che l’impresa Tre Fiammelle, unitamente ad altre imprese facenti capo alla famiglia D’Alba, sono socie in blocco di altri gruppi imprenditoriali e dunque non si può escludere una strategia imprenditoriale univoca di tutte le imprese della famiglia D’Alba”.
Nel 2020, in un fascicolo del Sistema Penale, rivista specializzata di settore con la collaborazione scientifica dell’Università degli Studi di Milano e della Bocconi, si legge: “L’applicazione della misura (interdittiva) potrebbe produrre anche un esito opposto, cioè l’accertamento dei presupposti per l’adozione dei più gravi provvedimenti di prevenzione, sicché vi è piuttosto da pensare che i male intenzionati starebbero ben alla larga da un siffatto contesto o se, in ipotesi, dovessero provarci, giocando a gatto e topo, finirebbero comunque per offrire su un piatto d’argento uno straordinario terreno investigativo. Il risultato è che si mette in campo un presupposto che, da un lato, non presenta alcuna utilità, atteso che l’esperimento del ricorso al giudice amministrativo non sarebbe certo un ostacolo per un’impresa criminale che ambisse strumentalmente al controllo giudiziario, d’altro lato, si mostra la difficoltà ad immedesimarsi realmente nella filosofia innovativa della riforma, neanche immaginando la possibilità che un’impresa non compiacente, ma che subisce, a volte persino inconsapevolmente, il condizionamento criminale, potrebbe non avere alcuna ragione per contraddire gli accertamenti prefettizi, e dunque per impugnarne i provvedimenti, bensì, proprio sulla base di questi stessi accertamenti, chiedere appunto l’aiuto salvifico dello Stato. Non va dimenticato che l’interdittiva prefettizia può basarsi su presupposti soltanto oggettivi, non attribuendo di per sé alcun rilievo dirimente al concorso del profilo soggettivo dell’imprenditore, che potrebbe mancare del tutto: stando al diritto positivo, anche, in ipotesi, l’impresa di un santo, oggetto di infiltrazione, potrebbe essere legittimamente colpita dalla prevenzione amministrativa. Del resto, la premessa sociologica che sta dietro la filosofia del salvataggio e la riforma che ne è conseguita non può essere ignorata, e cioè che vi sia tutta una zona grigia nella quale operano imprese di per sé sane che subiscono, più o meno direttamente e più o meno consapevolmente, la presenza mafiosa e che evocano, attraverso questo nuovo strumento, il sostegno e l’autorità dello Stato”. (In alto, la Prefettura di Foggia; nel riquadro, D’Alba; a destra, il pm Gatti e il prefetto di Foggia Valiante)
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