Per questa settimana ho deciso di non fare il giornalista. Lo so, c’è chi crede che non lo faccia mai. Magari ha anche ragione. Ora però le polemiche voglio farle solamente con Fnsi, Fieg e Inpgi. In basso troverete in allegato i termini dell’accordo sull’equo compenso per i giornalisti. Per i collaboratori, i freelance. Chiamateli come volete, ma in sostanza sono quelli che vanno in strada, lavorano con mezzi propri e di fortuna anche 14-15 ore al giorno. Senza di loro non trovereste nemmeno un giornale in edicola. Nemmeno uno. Lascio a voi i commenti su come dovrebbe vivere un giornalista. Fatevi un’idea. Io mi limiterò solo a raccontarvi in due parole la giornata tipo di un collaboratore. Saranno solo due perché ogni parola in più sarebbe un regalo ai grandi editori. E io regali ai grandi editori non ne faccio. Ci hanno già pensato Fnsi, Fieg e Inpgi.
La giornata di un collaboratore in dieci righe
Sveglia non troppo presto. Si, i giornalisti si svegliano tardi ma solo perché vanno a dormire molto tardi. E per tardi intendo massimo le 9:00. Prima della pipì si contano le telefonate, i messaggi, le mail arrivate durante la notte e di prima mattina. I collaboratori si svegliano già stressati perché il buongiorno non lo hanno mai dalla moglie, dalla madre, dalla coinquilina o da chiunque ci sia in casa. A svegliarli è l’assessore, il sindaco, il suo portavoce, il capitano dei carabinieri, un collega, il caporedattore, il suo vice (che di solito rompe molto di più perché è un’arrivista) o uno qualsiasi delle centinaia di contatti immagazzinati negli anni sulla Moleskine. Caffè e doccia. Si esce. Qui arriva il bello. I collaboratori non hanno un luogo fisico dove andare. Non hanno un ufficio, una scrivania. Non hanno niente. Loro non possono entrare in redazione. E’ vietato. Lì entrano solo i giornalisti assunti (articolo 1 o 2). Quelli col pedigree e la puzza sotto al naso. Non avendo un luogo fisico in cui andare, il loro ufficio diventa la strada. Con mezzi propri, e di qualsiasi specie, nell’arco di un’ora si devono rispettare anche cinque appuntamenti. Quando arriva l’ora di pranzo si sceglie il primo bar che capita sotto gli occhi e si riversa la propria frustrazione su un panino. Quello che costa meno. Dopo dieci minuti di panino e sigaretta (sistematicamente interrotti dalle telefonate di capi e capetti dalla redazione) si ricomincia. Altri appuntamenti, altre relazioni, altre analisi, confronti. Di nuovo telefonate, verifiche. Ogni giorno c’è qualcuno incazzato con quello che è stato pubblicato sul giornale. Non c’entra chi se n’è occupato, non c’entra la firma sul pezzo. Il front-man è sempre il collaboratore. Quello con cui ci si vede o ci si sente tutti i giorni. Mentre i pezzi grossi, quelli che con due click trasformano il lavoro del loro collaboratore in una porcata, vivono nella loro onnipotenza da Quinto potere. Dopo aver fatto anche più di 50 chilometri su e giù per la città, aver raccolto notizie su un omicidio, sulla nuova ordinanza razzista del sindaco, sulla protesta della Cgil, su quella degli sfrattati e aver girato ospedale, Comune, Provincia, Tribunale e tanta strada, cala la sera. Le persone normali tornano dalle loro famiglie, i giornalisti iniziano a mettere nero su bianco. L’ombra dell’orario di chiusura del giornale incombe. Il fantasma della tipografia spinge più veloce le dita sulla tastiera. Stop. Finita la giornata lavorativa. Finita anche la giornata di un uomo solo contro tutto. Non è la guerra. Non è la miniera. Non è la campagna. E’ un mestiere vero, nato proprio per inseguire la verità. La verità viene pagata poco e prima o poi non si troverà più sui giornali.
Accordo sull’equo compenso per i giornalisti