Niente indulto per uno dei maggiori boss nella storia della mafia garganica. Armando Libergolis (42 anni), tra i capi del “clan dei Montanari”, si è visto respingere la richiesta di rideterminazione pena da parte della Cassazione. In sentenza si legge: “L’indulto non può essere riconosciuto in quanto, nel quinquennio successivo al 2 maggio 2006 (l’indulto è concesso per tutti i reati commessi entro questa data – legge n.241 del 2006, ndr), Libergolis ha commesso reati per i quali ha riportato condanne a pena di anni 27 di reclusione”. La Cassazione ha così rigettato il ricorso del legale del boss contro l’ordinanza della Corte d’Assise di Bari del 22 novembre 2016. La Corte ritenne che la recidiva applicata a Libergolis, benché non più obbligatoria, non potesse essere esclusa in quanto il nuovo reato, su cui si fondava lo status di recidivo, per le sue specifiche circostanze e modalità, si rivelava sintomatico di una maggiore pericolosità del soggetto. “Il ricorrente – si legge ancora – sostiene che tutti i reati sono stati commessi in data anteriore al 2 maggio 2006, ma non affronta specificamente la motivazione del provvedimento che, al contrario, sottolinea che la sentenza di condanna alla pena di anni 27 di reclusione irrogata in primo grado dalla Corte di Assise di Foggia con sentenza del 17 marzo 2009 aveva ad oggetto delitti commessi “nell’attualità” e, quindi, da ritenersi consumati fino alla data di detta sentenza. Sussistendo, quindi, i presupposti per la revoca di diritto dell’indulto, il beneficio non poteva essere concesso per le condanne relative a reati che astrattamente erano compresi nel beneficio”.
Insomma, niente sconti per il super boss, finito in carcere dopo “il tradimento” dei Romito (un tempo alleati ma poi acerrimi rivali), ritenuti confidenti dei carabinieri.
Nel 2009 la Corte d’Assise nel maxi-processo alla mafia garganica inflisse l’ergastolo a Franco Libergolis e 27 anni a testa ai fratelli maggiori Armando e Matteo, pene poi confermate nei successivi gradi di giudizio.
I carabinieri, proprio grazie alle confidenze di esponenti della famiglia Romito (come Mario Luciano Romito, ucciso nella strage di San Marco in Lamis), riuscirono a piazzare microspie in una masseria situata nelle campagne di San Giovanni Rotondo, in località “Orti Frenti”, dove il 2 dicembre del 2003 si svolse un summit di mafia cui presero parte tra gli altri i fratelli Franco (ucciso il 24 aprile 2009) e Mario Luciano Romito, i fratelli Franco e Armando Libergolis ed altri due garganici.
La sentenza di condanna per mafia dei Libergolis poggiò proprio su quelle intercettazioni, perché nel summit si discusse della morte violenta di un amico dei Libergolis di due mesi prima, di affari e dell’assetto del gruppo. “Un summit – scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise – promosso dai Romito all’interno dell’azienda, luogo dove anche in altre occasioni c’erano state riunioni e dove i Romito erano ben a conoscenza dell’installazione delle apparecchiature sofisticate (microspie e telecamere) che consentirono agli inquirenti di seguire in diretta lo svolgersi dell’incontro. Una vera e propria trappola per colpire i Libergolis”.
Unica gioia per Armando Libergolis l’essere riuscito a diventare padre nonostante la detenzione. Nel 2014, infatti, il boss finì su tutti i giornali in quanto, nonostante il 416 bis, regime di “carcere duro”, utilizzò la tecnica della procreazione assistita per realizzare con la moglie il sogno di diventare genitori.