Tredici medici e operatori indagati per omicidio colposo plurimo. Il pm Dominga Petrilli avrebbe deciso di far luce su tre casi di morte sospetta per infezione da batterio klebsiella pneumonie avvenuti nel 2012 agli Ospedali Riuniti di Foggia. La Procura ha aperto un fascicolo dopo la denuncia dei familiari di una donna di 59 anni di origini tunisine, Jamaia Marzouguia, morta in circostanze da chiarire dopo il ricovero per ictus prima all’ospedale di Cerignola, poi – per via della “mancanza di posti letto” al Tatarella – in Rianimazione a Foggia dal 4 al 29 agosto 2012. A denunciare il decesso sospetto, la figlia della donna, Jendoubi Ilhem, a poche settimane di distanza dall’infezione riscontrata nel 2015 nel reparto di Ortopedia dell’azienda ospedaliero-universitaria. Ad ottobre scorso, l’ospedale Perrino di Brindisi ha tremato dopo l’inchiesta per 19 morti sospette nel 2013. Nell’indagine il pm, Milto Stefano De Nozza, decise di affidarsi proprio ad un pool di esperti dell’istituto di medicina legale e del dipartimento di Malattie infettive dell’Università degli Studi di Foggia. Paradossalmente, il secondo caso pugliese si registra proprio in Capitanata.
Secondo quanto riferito nella querela, nella stanza della Rianimazione, nello stesso periodo, c’erano già due pazienti alle prese con il batterio. Ciononostante, non sarebbe stata garantita la profilassi e la sanificazione degli ambienti. “Con specifico riferimento alla Klebsiella Pneumoniae – scrivono nella denuncia avvalorata da perizie di parte – è stato rilevato che agendo tempestivamente, appare possibile individuare tutti i pazienti infetti e colonizzati per applicare in modo ‘stringente’ le misure di isolamento da contatto al fine di interrompere ogni eventuale ‘catena di trasmissione’. Gli studi epidemiologici più accreditati, quindi, hanno messo in evidenza che è direttamente correlata all’insorgenza delle infezioni non tanto la presenza di questi batteri nell’ambiente circostante, difficilmente evitabile in assoluto, ma la modalità con cui gli stessi vengono a contatto con un ‘ospite’ suscettibile, risultando perciò determinanti ai fini cautelari tutte quelle precauzioni che vengono adottate per impedirne la propagazione. È evidente pertanto che un’efficace lotta, che abbia come obiettivo quello della riduzione dei germi patogeni in area ‘intensiva’, non può minimamente prescindere da una politica che coinvolga in tal senso l’intero personale ospedaliero nell’osservanza di misure cautelari da tutti condivise (e, prima ancora, da tutti conosciute!). Nel caso di specie, è totalmente mancato all’interno della rianimazione di Foggia l’apprestamento di un piano operativo di prevenzione efficace che contemplasse, non solo la valutazione dei rischi di infezione batterica correlata all’assistenza sanitaria, ma anche l’individuazione e l’adozione di tutte quelle misure cautelari idonee ad impedire, ovvero ad attenuare, la diffusione nosocomiale della Klebsiella Pneumoniae”.
Il 29 agosto, dopo quasi un mese di degenza in Rianimazione, i familiari hanno deciso di trasferire la donna presso la struttura ‘Luce sul Mare’ di Santarcangelo di Romagna (Rimini), nonostante l'”invito” di alcuni medici al trasferimento repentino della paziente nella clinica privata “Villa Pini” di Chieti per la successiva riabilitazione. Una delle altre due pazienti, è stata effettivamente trasferita in Abruzzo, dove è deceduta qualche giorno dopo. Mentre il terzo paziente è deceduto ai Riuniti. La presunta “correlazione” dei tre casi ha portato i parenti a ricorrere al tribunale, sia in sede penale che civile (la prossima udienza si terrà il 19 dicembre). Secondo alcune fonti, l’ufficio legale di via Pinto diretto da Simonetta Mastropieri avrebbe tentato un accordo stragiudiziale con i querelanti, ma la cifra proposta (5 milioni di euro) ha determinato il dietrofront dell’azienda. Adesso, la parola passa ai magistrati.