Proviamo a fare gli americani. Senza riuscirci. Dopo “Romanzo Criminale” e “Gomorra”, che per certi versi restano inarrivabili, forse “1992” può essere un nuovo inizio per la fiction di qualità all’italiana. Un po’ come nel “Caimano” di Nanni Moretti non c’è proprio la narrazione diretta dei fatti se non attraverso l’escamotage di vicende dei personaggi protagonisti. È presto per parlarne compiutamente, dopo le prime due puntate, però l’impianto è interessante. Le musiche forse fin troppo cariche rispetto alla cifra media del ritmo, ma non è detto che nello sviluppo della trama non ci sia un equilibrio finale. Allo Stefano Accorsi senza scrupoli e donnaiolo, con quella faccia da oratorio, ci si può forse abituare. Il resto del cast, per buona parte nomi non particolarmente noti alla tv, funziona. È un dato purtroppo assai sperimentato nella tv e nel cinema italiano: quasi mai sono gli attori a compromettere un progetto, molto più facile e frequente che sia il progetto stesso a presentare falle.
Così, in effetti, questo progetto – targato in modo quasi esagerato tra Sky Atlantic, La7 e Wildeside – promette molto finora rispetto a quanto sta mantenendo. La sfida è certamente ardua ma ormai è tardi per ritirarsi. Per arrivare a un finale degno bisognerà stupire. E forse rivedere in corso d’opera – se mai fosse possibile – anche qualche falla tecnica. Ad esempio, il lavoro sull’audio: i dialoghi troppo spesso risultano incomprensibili e non può essere solo un difetto dell’attore che non scandisce bene. Esistono i fonici proprio per questo motivo. Sì, forse c’è anche qualche problema con gli stereotipi. Le ragazze di “Non è la Rai” e varie amenità vengono utilizzate, forse un po’ forzatamente, come esempi negativi che fotografo un Paese che non può essere raccontato solo attraverso quelle immagini.
Al momento risulta preminente la figura di Berlusconi, che alleggia ma non appare. C’è Dell’Utri che sembra essere il deus ex machina di ogni cosa. Insomma sembrerebbe che “Mani pulite” nasca in Publitalia piuttosto che nelle stanze del potere politico, e che Berlusconi abbia avuto un ruolo prevalente anche in quel periodo storico. Concetto parecchio stiracchiato dato che le monetine vennero tirate a Craxi e che fu Forlani a crollare davanti a Di Pietro. Insomma, “1992” gira talmente alla larga dalla ricostruzione storica che rischia di raccontare una storia completamente diversa rispetto alla realtà. Ora, nessuno pretende il ritorno al neorealismo. Di film alla Francesco Rosi con Gian Maria Volontè che interpreta Enrico Mattei probabilmente non ne vedremo più. Ma allora tanto vale passare direttamente alla fiction. Che si inventino, dunque, storie completamente nuove e non aderenti in alcun modo alla realtà, che almeno non si corra il rischio di avventurarsi in una sorta di revisionismo involontario che, nel suo piccolo, potrebbe risultare pericoloso. O se non altro piuttosto urticante. Sky Atlantic, “1992”
Underwood si va umanizzando. Troppo. Sarà che quando un progetto televisivo non è pensato per durare più di una stagione, rischia di perdersi. E sarà che, molto probabilmente, l’autore dei tre romanzi che hanno ispirato “House of Cards”, Michael Dobbs, probabilmente non ha scritto lui né il secondo né il terzo libro della serie. Perché così si spiegherebbe il motivo per cui la prima stagione è un capolavoro di fiction. La seconda è un capolavoro di colpi di scena, quindi un saggio su come si scrive una serie tv. La terza, arranca. Forse vorrebbe essere la stagione più “politica” delle tre, cosa che in effetti sembra, ma il calo del ritmo e i risvolti della personalità di Frank Underwood che praticamente va diventando una sorta di vittima, se non altro di se stesso, stride abbastanza rispetto alle prime due scoppiettanti stagioni. È brutto dirlo, ma probabilmente la fiction-carriera di Underwood si sarebbe dovuta interrompere quando è diventato presidente degli Stati Uniti. Bastava e avanzava. Sky Atlantic, “House of Cards” terza stagione